La Space Economy spiegata dall’Esa: «Oggi andiamo nello Spazio per i dati, domani per le risorse minerarie» – L’intervista

Luca Del Monte, a capo delle politiche industriali dell’Agenzia Spaziale Europea, spiega perché il settore della Space Economy è destinato ad attrarre sempre più investitori

Nel 2020 sono stati investiti nell’economia legata allo Spazio circa 70 miliardi di euro. Di questi fondi, 12 miliardi sono stati spesi in Europa. La maggior parte degli investimenti arrivano dagli Stati Uniti, primi con il 60% della torta. Sempre nello stesso anno, il valore generato da questa economia è stato di 300 miliardi di euro. Certo, attorno all’esplorazione spaziale esiste un fascino alimentato da secoli di narrazione su tutto l’Universo che circonda la Terra. Ma non è per il fascino che i fondi di private equity si stanno muovendo. Per capire come funziona questo settore abbiamo intervistato Luca Del Monte, l’uomo che guida le politiche industriali dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). Del Monte sarà in Italia nei prossimi giorni per Il Verde e il Blu Festival, Buone idee per il futuro del pianeta, la rassegna che si apre venerdì 10 settembre a Milano tra piazza Lina Bo Bardi e Gae Aulenti.


Negli ultimi anni l’esplorazione spaziale ha trovato un nuovo interesse da parte del pubblico e dei governi. Perché abbiamo ricominciato ad appassionarci delle stelle?


«Fin dal lancio dello Sputnik e per i successivi 50 anni, tutte le attività spaziali sono state operate solo dai governi degli Stati più ricchi. Fare esplorazione spaziale era astronomicamente costoso. Negli anni ’90 avevamo solo 20 governi che investivano in questo settore. Ora ce ne sono circa 80 e bisogna contare anche i privati. La corsa allo Spazio non ha più un interesse solo strategico. È legata anche al profitto. La chiave di volta è questa: si va nello Spazio per fare affari»

Tutti questi affari vengono riuniti sotto la definizione di Space Economy. Di cosa si tratta?

«La Space Economy raggruppa tutte le attività che includono lo sfruttamento delle risorse spaziali per la creazione di valore. Si divide in due campi: upstream e downstream. Per upstream intendiamo tutto quello che viene mandato nello Spazio, a partire dai satelliti. Il settore downstream invece include tutte le applicazioni che vengono sviluppate a terra partendo dai dati prodotti dai dispositivi in orbita».

Facciamo qualche esempio.

«Stiamo parlando di tutto quello che è inerente al campo dell’osservazione del nostro pianeta. Molti satelliti si occupano solo di scattare immagini della Terra, con diverse frequenze. Ci sono aziende che lavorano con questi dati e li traducono in informazioni. Ogni giorno ci sono circa 5 petabyte di dati che vengono trasmessi dai satelliti».

Un Petabyte equivale a un milione di Gigabyte. Per cosa vengono usati tutti questi dati?

«Ci sono aziende che usano tutte queste immagini per aiutare i loro clienti a fare valutazioni in ambito finanziario. Alcune società sono in grado di valutare la quantità di petrolio ferma in un magazzino dall’ombra che proiettano i barili. E così sono in grado di valutare l’andamento del mercato. Ci sono assicurazione che valutano con questi dati il rischio idrogeologico dei loro clienti. O ancora, pensiamo a quanti servizi si basano sui dispositivi di geolocalizzazione satellitare che abbiamo nei nostri smartphone».

E in futuro, quali saranno le prossime frontiere della Space Economy?

«Stiamo andando verso ambiti impensabili fino a pochi anni fa. Le nuove frontiere possono arrivare dallo sfruttamento di risorse minerarie sui corpi celesti, come gli asteroidi o la Luna. O ancora la creazione di habitat adatti all’uomo».

Le compagnie spaziali si sono ritagliate un ruolo da protagoniste. Quale ruolo avranno le agenzie statali?

«Le agenzie come l’Esa o la Nasa devono ripensare il loro ruolo. Per anni siamo stati solo clienti di aziende che operavano nel settore. Ora stiamo diventando consulenti per spiegare agli investitori i rischi dello Spazio. Un’agenzia credibile può consigliare i privati e indirizzarli verso buoni investimenti».

Abbiamo visto i primi esempi di voli commerciali ai confini della nostra atmosfera. Lo sviluppo di questo settore può coinvolgere anche l’Esa?

«Non vedo un interesse della nostra agenzia nell’acquisto di velivoli che facciano voli suborbitali, è più probabile che cominceremo a fare degli esperimenti su questi voli. Si tratta però ti tempi ristrettissimi. I voli durano pochi minuti».

Ormai da tempo si parla del primo spazioporto italiano. Sarà a Grottaglie e dovrebbe aprire nel 2023. Verrà usato anche dall’Esa?

«L’aeroporto di Grottaglie potrebbe essere usato proprio per i voli suborbitali. Il problema principale non è tanto lo spazio ma il lanciatore. Non tutti i razzi possono partire da lì. La base di Grottaglie poi potrebbe essere molto sfruttata per i voli turistici».

Nei prossimi anni quali saranno le figure professionali più ricercate da questo mercato?

«Il settore spaziale in questo momento è sempre una goccia nell’economia. In Europa le persone che lavorano nelle aziende in ambito upstream sono meno di 50 mila. Un’azienda come Audi conta 80 mila dipendenti. Ora questo settore sta affrontando una fase di automatizzazione: prima i satelliti erano un lavoro da orafi, venivano praticamente fatti a mano. Ora ci sono produzioni in serie che riguardano anche 30 mila di questi oggetti. La robotica quindi potrebbe essere un ottimo campo in cui specializzarsi».

Lei come ha cominciato?

«Ho avuto passione fin da piccolo. Mi sono laureato in ingegneria aerospaziale a Roma. Questo è una di quelle attività per cui bisogna studiare tanto. Finita l’università ho lavorato in Germania, in Olanda e poi sono tornato in Italia. Sono stato anche all’Agenzia Spaziale Italiana. Ho lavorato sia nel settore pubblico che in quello privato. Dopo aver fatto una bella scorta di esperienza si sono aperte le porte dell’Esa».

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