Cosa succede tra Taiwan e la Cina e perché Xi Jinping parla di «riunificazione»

Il presidente cinese minaccia. Taipei risponde che si «sforzerà di mantenere lo status quo di pace e stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan». Sale la tensione, anche militare

Taiwan è «una questione interna alla Cina e non ammette interferenze esterne». Parola del presidente cinese Xi Jinping, che alle celebrazioni per i 110 anni dalla Rivoluzione del 1911, ha detto che la questione è nata dalla debolezza e dal caos della nazione cinese. Per Xi Jinping «il secessionismo di Taiwan è il più grande ostacolo alla riunificazione nazionale, una seria minaccia al ringiovanimento nazionale. Chiunque voglia tradire e separare il Paese sarà giudicato dalla storia e non farà una buona fine». Da qui l’annuncio perentorio: la riunificazione «completa del nostro Paese ci sarà».


L’unica Cina e il problema Taiwan

Sale a livelli altissimi la tensione nello Stretto di Taiwan, con al centro la questione dell’isola che la Cina rivendica come parte del proprio territorio nazionale. «La soluzione di Taiwan è determinata dalla tendenza generale della storia cinese, ma, cosa più importante, è la volontà comune di tutto il popolo cinese», ripete il segretario del Partito Comunista Cinese. «La riunificazione nazionale con mezzi pacifici serve al meglio gli interessi della nazione cinese nel suo insieme, compresi i connazionali di Taiwan», prosegue Xi. «I compatrioti su entrambi i lati dello Stretto di Taiwan dovrebbero stare dalla parte giusta della storia», mentre chi dimentica la propria eredità tradisce la madrepatria. «Cercano di dividere il paese, non avranno una buona fine», minaccia Xi. «Saranno disprezzati dalla gente e condannati dalla storia. Nessuno dovrebbe sottovalutare la determinazione, la volontà e la capacità del popolo cinese nel salvaguardare la sovranità e l’integrità territoriale».


La replica di Taiwan

EPA/ROMAN PILIPEY | Il presidente cinese Xi Jinping alla commemorazione per il 110mo anniversario della rivoluzione cinese a Pechino, Cina, 9 ottobre 2021.

Netta e immediata è la replica del consiglio di Taipei per gli affari con la Cina: solo i 23 milioni di taiwanesi hanno il diritto di decidere «il futuro e lo sviluppo» dell’isola, si legge in una nota. La presidente Tsai Ing-wen ha ripetuto che Taiwan «non cederà né avanzerà», che al centro restano la difesa di sovranità e sicurezza nazionali e la strada della cooperazione con i Paesi amici. Non solo: Taiwan si «sforzerà di mantenere lo status quo di pace e stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan». Anzi: Pechino deve smetterla con le provocazioni e dedicarsi a «pace, reciprocità, democrazia e dialogo». Sull’isola vige democrazia e libertà, ricorda la nota, che mantiene la pace attraverso lo Stretto di Taiwan. E la tendenza storica «non è dalla parte dell’egemonia autocratica» e lo dimostrano le posizioni della comunità internazionale.

L’isola che non c’è

La chiamano l’isola che non c’è. Oggi i paesi che intrattengono relazioni diplomatiche e che riconoscono Taiwan sono una manciata, sempre meno negli ultimi anni e a parte il Vaticano sono tutti poveri. L’isolamento di Taipei è causato dalla politica della “unica Cina”. E in sintesi: per parlare con Pechino è necessario non riconoscere Taipei. Non c’è altra via. I nazionalisti di Chiang Kai-shek nel 1949 – sconfitti dai comunisti guidati da Mao Zedong – hanno riparato qui nell’isola: sia i comunisti che i nazionalisti a quel punto rivendicavano di rappresentare l’intera Cina. Un fatto che ha dato il via anche allo strano destino del seggio della Cina alle Nazioni Unite occupato dalla Repubblica Popolare Cinese (fondata da Mao) fin dal 25 ottobre 1971 e prima dalla Repubblica di Cina. Gli stessi Stati Uniti hanno con Cina e Taiwan relazioni contrastanti. Il riconoscimento e l’avvio dei rapporti diplomatici con l’unica Cina risale al 1979. Ma poi i rapporti degli americani con Taiwan sono regolati dal Taiwan Relations Act, che garantisce il supporto di Washington a Taipei. La Cina non ne è affatto felice, anche perché nel documento si sancisce che Washington stabilisce relazioni diplomatiche con la Cina in base all’aspettativa che il futuro di Taiwan sia determinato con “mezzi pacifici” – con gli Stati Uniti che addirittura si lasciano aperta la possibilità di fornire armi all’isola.

La strategia del porcospino

Se sul piano diplomatico la Cina avanza, decimando i paesi in appoggio al governo di Taipei, su quello economico Pechino ha fatto recentemente un balzo in avanti, presentando una settimana prima di Taiwan la candidatura alla Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership: l’adesione cinese al patto di libero scambio che riunisce undici Paesi che si affacciano sul Pacifico marginalizzerebbe l’isola. Negli ultimi giorni poi l’escalation militare è sotto gli occhi del mondo: Taipei ha denunciato un nuovo record di incursioni della Cina nel proprio spazio aereo: 52 aerei militari cinesi avrebbero violato la zona di identificazione aerea di Difesa in un solo giorno. L’aumento della pressione militare è cominciato dall’inizio del mese. La risposta dell’isola è passata dall’aumento dei fondi per la Difesa, mentre la minaccia di invasione viene percepita come sempre più reale.

La presidente

I rapporti tra le due sponde dello Stretto sono peggiorati con Tsai Ing-wen, rieletta a inizio 2020 per un secondo mandato presidenziale. Per Pechino, Tsai e i suoi, il Partito Democratico-progressista di Taiwan, sono un covo di “indipendentisti”. La presidente, a differenza del suo predecessore che riconosceva ma poi parlava di sfumature, non ha mai dichiarato di riconoscere pubblicamente il principio della “unica Cina”, in base al quale Pechino rivendica Taiwan come parte del proprio territorio nazionale. Per la leader, anzi, Taiwan è già di fatto indipendente.

In copertina EPA/ROMAN PILIPEY | Il presidente cinese Xi Jinping alla commemorazione per il 110mo anniversario della rivoluzione cinese a Pechino, Cina, 9 ottobre 2021.

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