Singapore, giustiziato per traffico di droga nonostante la disabilità mentale: le proteste degli attivisti

Nagaenthran K. Dharmalingam era stato condannato 10 anni fa. Ora montano le proteste contro la pena di morte, applicata secondo molti in maniera ingiusta

Un giovane disabile mentale è stato giustiziato questa mattina 27 aprile a Singapore per tentato traffico di droga. Sono state inutili le proteste della famiglia e degli attivisti per i diritti umani, che fino all’ultimo hanno cercato di far annullare l’esecuzione, attirando sul caso un’attenzione internazionale. Ora, nella città-stato asiatica, dove la pena di morte ha sempre incontrato il favore della maggioranza della popolazione, iniziano a emergere voci dissonanti, che denunciano un «sistema di giustizia fallato». Lo riporta il Guardian


La storia di Nagaenthran

Nagaenthran “Nagen” K. Dharmalingam, questo il nome del giovane, era stato arrestato nel 2009, all’età di 21 anni, per aver tentato di introdurre nella città 43 g di eroina (una quantità corrispondente a circa tre cucchiai). Era stato condannato alla pena di morte l’anno successivo, rimanendo per più di 10 anni nel braccio della morte. Il giovane, che all’epoca lavorava come saldatore in Malesia, era finito nel giro di droga nel tentativo di arrotondare la paga per aiutare il padre, in procinto di sottoporsi a un’operazione al cuore. Nagaenthran ha sempre sostenuto di essere stato costretto a trasportare il pacchetto da un uomo a cui aveva chiesto un piccolo prestito, senza sapere che contenesse eroina. Nonostante il suo avvocato abbia dimostrato il quoziente intellettivo molto basso del ragazzo, indice di difficoltà nell’apprendimento e disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, né le indagini né il successivo processo hanno mai preso in considerazione l’attenuante data dalla disabilità mentale.  


La mobilitazione

Il caso di Nagaenthran ha portato alla mobilitazione internazionale di attivisti per i diritti umani, rappresentanti dell’Unione Europea e della Nato, fino a noti personaggi del mondo dello spettacolo. Più volte la famiglia e gli attivisti hanno richiesto l’annullamento della sentenza, ma senza successo. L’ultimo tentativo proprio lunedì 25 aprile, quando la madre, Panchalai Supermaniam, si è vista rifiutare l’ennesimo ricorso, dove sosteneva che il figlio non avesse ricevuto un giusto processo per via del conflitto di interessi del giudice della corte d’appello, lo stesso che aveva emesso la condanna nel 2010.

Gli attivisti, che si sono riuniti nello stesso giorno per una fiaccolata di protesta, contestano la durissima politica antidroga del governo, che continua invece a sostenerne l’efficacia deterrente. «La pena capitale a Singapore prende di mira in modo sproporzionato i corrieri della droga piuttosto che puntare ai signori della droga che li trafficano o li manipolano», ha detto al Guardian Maya Foa, direttrice del gruppo per i diritti umani Reprieve. «La maggior parte delle sue vittime sono, come Nagen, povere, vulnerabili e provenienti da comunità emarginate. È un sistema fallato». Anche la portavoce per i diritti umani dell’Onu, Ravina Shamdasani, si è detta preoccupata per la «rapida ascesa» degli avvisi di esecuzione consegnati nell’ultimo anno a Singapore, quasi tutti per reati di droga. Il mese scorso, a due anni dall’ultima esecuzione, era stato giustiziato un alto giovane condannato per un reato simile, Abdul Kahar bin Othman.  

La pena di morte a Singapore

Il consenso popolare nei confronti dell’applicazione della pena di morte è rimasto sempre molto alto negli ultimi anni, ma potrebbe vacillare con il caso di Nagen. Uno studio della National University of Singapore ha rilevato che sette singaporiani su 10 sono d’accordo con la pena capitale in generale, ma il sostegno diminuisce quando alle persone vengono presentati scenari diversi e viene poi chiesto loro di decidere se giustiziare o meno il condannato. La vicenda di Nagen ha generato diverse manifestazioni a richiesta dell’abolizione della pena di morte, in un Paese in cui protestare è diventato sempre più difficile. Sono soprattutto i giovani a mettere in discussione il sistema giudiziario del governo, che si vanta di aver reso la città «uno dei luoghi più sicuri al mondo». Ma le autorità non hanno mai reso noto quale sia il numero dei condannati a morte nel Paese, né permettono che i media, sottoposti a una forte censura, parlino dei casi di pena di morte. «I social media ci hanno permesso di mettere al centro le voci dei prigionieri nel braccio della morte e delle loro famiglie» ha detto al Guardian l’attivista per i diritti umani Jolovan Wham.

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