Malattia e farmaci somministrati. Un’associazione semplice che nella maggior parte dei casi rimanda all’intervento sicuro ed efficace della medicina sul corpo umano, in tutte quelle difficili situazioni in cui parti importanti del nostro organismo smettono di funzionare come dovrebbero, e i traguardi della scienza si rivelano spesso possibilità salvifiche. Ma è nel mondo dello sport agonistico, e in particolare quello del calcio, che l’equazione potrebbe essersi ribaltata, partendo dalla routine di un consumo spesso eccessivo di farmaci e trovando nei casi peggiori la deriva di patologie potenzialmente letali. È questa la questione che sempre più ex atleti continuano a porsi, tornando con la memoria dentro gli spogliatoi delle squadre prestigiose in cui hanno giocato, dove un uso massiccio e incontrollato di farmaci (legali) «per performare meglio» era all’ordine del giorno. Non è passato molto tempo prima che quegli stessi medicinali venissero inseriti nell’elenco proibito delle sostanze dopanti. Anni ancora dopo, gli ex atleti che oggi nutrono non pochi dubbi e timori, hanno visto colleghi e amici andarsene, dopo periodi di grande sofferenza passati a voler guarire da tumori e malattie neurodegenerative. Dopo la testimonianza rilasciata a Open dell’ex portiere di Serie A Lamberto Boranga, è uno dei medici sportivi più prestigiosi del calcio italiano a parlare della questione. Enrico Castellacci, specializzato in Medicina dello Sport e in Ortopedia e Traumatologia, presidente dell’Associazione Italiana Medici del Calcio, docente presso l’Università Foro Italico di Roma, è stato medico sportivo della Lucchese, dell’Empoli e ancora della Juventus, nonché parte della spedizione della Nazionale di Marcello Lippi, in un 2006 che consacrò gli azzurri campioni del mondo.
Dottor Castellacci, le morti di Gianluca Vialli e di Siniša Mihajlović hanno riaperto una ferita profonda nel calcio degli anni passati che ancora non trova risposte. Da medico che idea si è fatto?
«Partiamo dal presupposto che questo è un momento emozionalmente molto forte. La perdita di due personaggi così amati ha inevitabilmente colpito. Questo crea una suggestione non indifferente sul possibile collegamento tra le morti a cui assistiamo e l’utilizzo di farmaci di cui gli ex atleti hanno memoria. Le preoccupazioni in questo senso ci sono da sempre e ciclicamente vengono riproposte: quello che è necessario fare ora è uscire dalla bolla emozionale in cui tutti siamo sprofondati per renderci conto di un fatto oggettivo: non esistono ad oggi prove scientifiche che confermino un reale collegamento tra i farmaci di cui parlano gli atleti e i tumori. Questo dobbiamo ribadirlo per onestà intellettuale. È altrettanto chiaro che l’abuso di qualsiasi farmaco è sempre un grosso rischio in sé e questo non sarebbe giusto sottovalutarlo».
A proposito di abuso, Boranga e gli altri hanno raccontato di un sovradosaggio molto frequente a cui si usava ricorrere per avere maggiore resistenza e concentrazione. Che medicina sportiva era quella degli anni ’80 e ’90?
«Una medicina dello sport molto diversa da quella di adesso, mi permetta di dire anche a livello culturale. La classe medica è totalmente cambiata. Prima i medici delle squadre erano certamente di professione ma spesso erano anche amici di presidenti e frutto di conoscenze varie. Oggi i medici scelti devono necessariamente avere la specializzazione in medicina dello sport, vengono presi con criteri di scientificità e professionalità intensi».
La scelta di medici “amici” poteva aiutare a raggiungere certi obiettivi di performance da parte delle società con la mancanza del controllo di cui molti ex atleti oggi parlano?
«Quello che voglio ricordare è che si sta parlando di farmaci che all’epoca erano assolutamente legali. E che solo dopo sono entrati nella lista delle sostanze dopanti. Un medico che a quel tempo prescriveva farmaci lo faceva nel pieno della legittimità della sua azione terapeutica. Dopodiché è anche chiaro che un altro elemento molto presente nell’ambiente calcistico di quei tempi era la pressione. Un pressing psicologico che le società esercitavano sulla squadra e sul medico, chiamato a far giocare il più possibile il calciatore».
Da qui l’abitudine delle società di chiedere “aiutini” ai medici per «calciatori un po’ spenti» di cui parla lo stesso Boranga?
«Sì ma stiamo parlando di tutti elementi che, seppur parti importanti di una realtà, non avrebbero giustificato l’abuso farmacologico. Da presidente dei medici del calcio mi sento di dire che i medici che prescrivevano questi farmaci lo facevano con la ferma coscienza di non poter creare delle problematiche».
Ma allora di chi è la reale responsabilità sul sistema dei sovradosaggi? Nei racconti degli ex calciatori anche il mea culpa per aver preso spesso di loro spontanea volontà una quantità di farmaci non corrispondente a quello prescritta
«Non credo sia possibile fare una classifica. Dagli atleti ci può essere stata l’intenzione di esasperare la terapia medica per il desiderio di rientrare subito in campo o per essere più performanti. La loro attenzione e conoscenza su ciò che prendevano era molto bassa. Resta il fatto però che se un medico è convinto che il farmaco in over dose faccia male deve controllare e impedire. Il giocatore, molto probabilmente senza informarsi, chiedeva lui stesso di prenderne di più, come è stato raccontato. Dopodiché non dimentichiamoci che ogni atleta è sotto il controllo medico. Se le colpe ci sono, sono dell’intero sistema. Anche qui non posso non ricordare che attualmente porteremmo a processo un meccanismo la cui pericolosità non è scientificamente provata».
Tra i nomi di farmaci più citati c’è quello del Micoren. Che idea si è fatto sul possibile collegamento con i tumori?
«La questione del Micoren ha sempre fatto impressione: non è facile venire a sapere che uno dei farmaci che hai usato di più da quel momento è considerato sostanza dopante. Da medico posso dire che ho forti dubbi sul fatto che dosi relative di Micoren possano aver avuto un reale effetto nocivo. Il sovradosaggio è un altro discorso e non si può escludere che ci sia stato. Ma soprattutto sul collegamento con i tumori io andrei molto cauto. Rispetto alla Sla, per esempio, c’è molta meno evidenza sul piano oncologico. Questo però non vuol dire che la riflessione non debba essere fatta. Ho apprezzato quello che hanno detto Boranga, Tardelli e gli altri. Hanno posto delle riflessioni essenziali a livello medico: la ricerca oggi ha il dovere di approfondire».
Se arrivassero domani dei fondi per la ricerca sul collegamento tra doping e malattie nel calcio, cosa sarebbe più urgente verificare?
«Sul piano delle priorità direi senza dubbio la questione Sla. Con una percentuale di incidenza molto più allarmante tra gli atleti rispetto ai tumori, che invece non presentano nei giocatori una percentuale di presenza maggiore. Per la Sla sì ed è dimostrato. La riflessione urgente quindi dovrebbe essere fatta sulla frequenza molto più alta di questa malattia neurodegenerativa tra gli ex calciatori. Un’esigenza che riporta alla mente anche quello che è valso per il football americano e i traumi cranici: gli studi hanno provato che continue commozioni cerebrali potevano portare a un’alterazione neurodegenerativa. Dobbiamo anche noi andare in questa direzione e approfondire come non è ancora stato mai fatto».
Sulla Sla l’abuso di antinfiammatori sembra essere una delle ipotesi di collegamento più accreditate.
«È una possibilità. Ma l’abuso di antinfiammatori fa male a qualunque persona, qualsiasi professione faccia. È ancora troppo poco quello che sappiamo. Credo si abbia il dovere di andare avanti».
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