Parità di genere: in azienda tante buone prassi, ma c’è chi la usa solo come spot

Il problema del lavoro femminile in Italia va spacchettato in tre: in ogni contesto produttivo questioni e scogli diversi. Ecco l’agenda su cui dovrebbe muoversi il governo

Nella giornata internazionale della donna è doveroso affrontate il tema del lavoro femminile; qualsiasi analisi non può non partire dall’impietosa fotografia che viene fuori dalle statistiche ufficiali, utili a ricordarci che il sesso femminile è quello più colpito dalla disoccupazione e dai fenomeni di precarizzazione del mercato del lavoro. Bisogna andare oltre la semplice e doverosa critica di questi numeri, per cercare di capire quali sono gli scogli principali che rendono ancora problematico il rapporto tra donne e lavoro. Problemi che cambiamo molto in relazioni ai contesti produttivi, alle dimensioni delle imprese e ai settori di attività. Esistono almeno tre diversi “mondi” dove le donne devono affrontare problemi molti differenti tra loro. Il primo di questi mondi è quello delle grandi aziende, nazionali e multinazionali, quelle ricche di codici etici, comitati di sostenibilità e certificazione di ogni natura. In queste imprese il tema della parità di genere non deve essere sollevato, è già diventato una priorità e ci sono mille piani, politiche aziendali e percorsi organizzativi orientati, con velocità diverse (perché non tutti ci credono allo stesso modo), a raggiungere in maniera concreta la parità di genere, rimuovere le differenze salariali e favorire l’equa distribuzione delle opportunità.


Per le donne che lavorano in queste aziende, il vero grande rischio è il cosiddetto pink washing: accanto a tante imprese che ci credono per davvero, ce ne sono alcune che utilizzano e sbandierano il tema della parità per scopi meramente promozionali, senza riempirla di contenuti concreti. In questi giorni un’azienda sta pubblicizzando sui giornali l’ottenimento della certificazione sulla parità di genere e accompagna questa comunicazione con una foto dei proprio dipendenti; quella foto fa un effetto strano perché ci sono quasi solo uomini, soprattutto in prima fila. Attenzione, quindi, alla coerenza tra obiettivi e azioni concrete. Se usciamo dal circuito delle grandi aziende e spostiamo l’attenzione sulla piccola e media impresa, lo scenario cambia profondamente. I comitati, i codici etici e le certificazioni sono un fenomeno molto episodico, ci si affida al “fai da te” della parità di genere e ognuno si regola come crede: sulle scelte aziendali pesano in maniera decisiva gli orientamenti delle proprietà e del management, le caratteristiche del lavoro e l’influsso del territorio. Casi come quello di Elisabetta Franchi rappresentano bene questa realtà: la parità di genere è declinata secondo la visione personale del fondatore, anche se non sempre questa produce politiche di gestione utili a favorire il lavoro femminile.


C’è poi un terzo e ancora più insidioso mondo, quello del lavoro grigio, precario e irregolare: nella giungla delle false partite iva, delle collaborazioni irregolari e dei contratti pirata il tema del lavoro femminile non è neanche affrontato; si mettono in atto le politiche maggiormente punitive verso le donne (come ad esempio la negazione del diritto a progettare la maternità sul ricatto del mancato rinnovo di un contratto precario) nel silenzio complice di tutti quelli che utilizzano e comprano servizi prodotti con lavoro irregolare. Si pensi, per restare a un settore a noi vicino, ai prodotti editoriali, oggetto di sfruttamento di lavoro precario femminile da parte delle stesse testate che lanciano campagne per la tutela delle donne. Ciascuno di questi mondi deve essere riconosciuto, decodificato e gestito con politiche appropriate alla diversità dei contesti, che tengano anche conto di alcuni insegnamenti e degli errori del passato. È ormai acquisito, ad esempio, che le politiche degli sgravi contributivi non incidono in maniera significativa nelle scelte occupazionali delle imprese; è altrettanto chiaro che lo smart working può essere di aiuto alla conciliazione tra vita e lavoro, ma può anche rivelarsi una nuova gabbia per le donne, che non possono essere relegate nell’ingrato compito di gestite gli impegni familiari in contemporanea con il lavoro. 

Si pensi al caso dei congedi post-parto, che dovrebbero sempre più diventare un tema condiviso da entrambi i genitori, uscendo dal recinto esclusivamente femminile dove sono rimasti relegati per molto tempo. E bisogna anche pensare di riprendere il sistema delle “quote”, sicuramente rozzo ma altrettanto sicuramente utile a velocizzare alcuni processi, come ha dimostrato l’effetto positivo generato dalla legge che per un certo periodo ha imposto un 30% di presenza femminile nei consigli di amministrazione. La Spagna si accinge a varare misure di questo tipo: è il caso di riflettere anche da noi su misure di questo tipo, almeno su base temporanea. Queste e altre misure dovrebbero essere prioritarie nell’agenda di governo, non solo oggi ma anche domani, quando saranno terminate le celebrazioni dell’8 marzo, per un motivo banale: come dimostrano i numeri ricordati in premessa, il mercato del lavoro può crescere, per dimensioni e qualità, solo con un incremento della presenza e della qualità del lavoro femminile.

Foto di copertina: Pixabay

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