«Incinta tu? Ma non sei lesbica?», la frase alla collega che è costata il posto a un autista. Perché per la Cassazione doveva essere licenziato

Nel 2020 la Corte di Appello aveva considerato eccessivo il licenziamento dell’uomo. Secondo la Cassazione però la decisione di licenziarlo era corretta

«Come sei incinta tu? Non sei lesbica?». È stata questa la frase che ha portato uno degli autisti della Tper spa, società emiliana di trasporto pubblico, ad essere licenziato per aver discriminato una collega. «È innegabile il portato dell’evoluzione della società negli ultimi decenni e l’acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale, pertanto l’intrusione in tale sfera con modalità di scherno non è solo una condotta inurbana». Così si è pronunciata la Corte di Cassazione che, con il verdetto 7029 della Sezione lavoro, ha accolto il ricorso della società emiliana, che aveva cacciato senza alcun diritto a indennità il suo dipendente Michele M.


Cosa era successo tra i colleghi

La collega vittima delle frasi discriminatorie aveva da poco partorito due gemelli e alla fermata dei pullman si era sentita dire: «Ma perchè sei uscita incinta pure tu? Ma perchè non sei lesbica tu?». E ancora: «Come sei uscita incinta?». La donna così aveva presentato un esposto all’azienda in cui lavoravano entrambi. A sua volta la società aveva deciso di licenziare in tronco Michele perché aveva adottato «un comportamento gravemente lesivo dei principi del Codice etico aziendale e delle regole di civile convivenza». Un licenziamento che secondo una sentenza del 2020 della Corte di Appello di Bologna era stato considerato eccessivo e bollato come «comportamento inurbano». Pertanto, avevano chiesto alla Tper di versare all’autista venti mensilità.


La decisione della Cassazione

Ma la Suprema Corte ha ribaltato la sentenza: «La valutazione del giudice di merito nel ricondurre a mero comportamento inurbano la condotta di Michele M. non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento». Secondo gli ermellini la decisione della Corte considerava quanto accaduto come un comportamento in contrasto con la buona educazione. Una valutazione, a loro avviso, limitata perché le dichiarazioni del dipendente «si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell’ordinamento». Inoltre, la Cassazione ricorda che il Codice delle Pari opportunità tra uomo e donna considera come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei «comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo». La Corte di appello è quindi ora costretta a rivedere la sua decisione verificando «la sussistenza della giusta causa di licenziamento alla luce della corretta scala valoriale di riferimento».

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