Cosa c’è nel rapporto dell’Ipcc sul cambiamento climatico e perché bisogna agire subito

Il documento degli esperti dell’organo delle Nazioni Unite non solo illustra i rischi dell’immobilismo climatico che si fanno ogni giorno più concreti, ma suggerisce anche soluzioni che governi e industrie potrebbero adottare per ridurre l’impatto climatico delle attività umane

«La finestra temporale per agire si sta chiudendo rapidamente». Questo è il messaggio più importante contenuto nell’ultimo rapporto dell’Ipcc sullo stato dell’azione contro il cambiamento climatico nel 2023. Nelle 37 pagine del sommario per policymakers – il rapporto integrale non è ancora stato pubblicato – gli esperti dell’organo delle Nazioni Unite hanno riassunto le conclusioni raggiunte dal panel di scienziati che ha esaminato nel dettaglio migliaia di studi sul cambiamento climatico. Il documento riassume «lo stato della conoscenza del cambiamento climatico, il suo impatto su larga scala e i rischi che comporta». Il risultato è chiaro, il consumo smodato di combustibili fossili da parte degli esseri umani sta danneggiando tutti noi, ma sta danneggiando qualcuno più di altri. Il rapporto, però, non solo illustra i rischi dell’immobilismo climatico che si fanno ogni giorno più concreti, ma suggerisce anche soluzioni che governi e industrie potrebbero adottare per ridurre l’impatto climatico delle attività umane, che l’Ipcc indica come causa certa del riscaldamento globale in corso in questi anni. Ciò che verrà fatto tra ora e il 2030 avrà l’impatto maggiore su un eventuale rallentamento dell’aumento delle temperature.


Qual è la situazione attuale?

La temperatura media globale è attualmente 1,1 gradi superiore rispetto al periodo preindustriale. L’incremento è stato più veloce dal 1970 ad oggi che in ogni altro periodo storico studiato. Questa soglia di riscaldamento, tutto sommato modesta rispetto a quella che abbiamo di fronte se non si interverrà drasticamente, ha già generato «traumi» a causa degli eventi meteorologici estremi che oggi sono molto più frequenti che in passato. Così come ha accentuato la perdita di «vite e culture» umane, quella di biodiversità terrestre e marina, e ha peggiorato i raccolti dell’agricoltura globale. E continuerà a farlo con l’aumento delle temperature.


Eventi meteorologici estremi e malattie

Il rapporto indica come «molto probabile» che l’aumento del livello del mare visto dal 1971 ad oggi, che in questi decenni ha subito un’accelerazione, passando da 1,3 millimetri l’anno a 3,7 millimetri l’anno, sia causato dalle attività umane. Inoltre, nel documento si legge che è «probabile» che siano state le attività umane a generare l’aumento degli eventi meteorologici estremi visto in questi anni. Si parla di onde di calore, bombe d’acqua, alluvioni, siccità, frane, smottamenti, cicloni tropicali. Secondo l’Ipcc, sono almeno 3,3 i miliardi di persone che vivono in contesti che sono fortemente vulnerabili a causa del cambiamento climatico. Le macroaree più colpite sono in Africa, Asia, e Sud America. Paesi poco sviluppati, piccole isole, e regioni artiche. Con certezza quasi assoluta, il rapporto informa che a causa del cambiamento climatico, la mortalità è aumentata in tutte le regioni del mondo. Così come l’incidenza di malattie trasmesse tramite cibo e acqua, i problemi di salute mentale legati alle alte temperature, e la riduzione della produzione di cibo. Più aumenterà la temperatura, e più questi fenomeni si aggraveranno.

Le nuove generazioni e le popolazioni più vulnerabili soffrono di più

Anche se il necessario taglio delle emissioni fosse immediato, la Terra continuerebbe a riscaldarsi per i decenni a venire. Il risultato è che un bambino nato nel 2020, ha una probabilità considerevole di vedere la temperatura media del pianeta aumentare oltre il 2100. Più si è nati di recente, e più si è esposti ai rischi, come illustrato da questo grafico.

Figure SPM.1 (C)

Tra umani e umani, però, c’è differenza, evidenzia il rapporto. Degli 8 miliardi di persone che abitano la terra, circa il 10% sono responsabili di una quota di emissioni di gas serra compresa tra il 35 e il 45 percento. Il 50%, invece, ne produce appena il 13-15%. E infatti sono proprio le comunità più vulnerabili a soffrire maggiormente le conseguenze delle azioni dei più benestanti. Basti pensare che l’intero continente africano, dove vivono oltre 1,2 miliardi di persone, ha prodotto meno del 4% delle emissioni di gas serra.

Le prospettive future

Secondo il rapporto, la soglia degli 1,5 gradi di riscaldamento, considerata fondamentale per evitare le conseguenze più catastrofiche; la stessa oltre la quale gli Stati si erano impegnati a non andare con gli accordi di Parigi del 2015, verrà superata entro la prima metà degli anni 2030. Ciò avverrà anche a causa delle emissioni di gas serra già cumulate nell’atmosfera, che non possono essere rimosse se non con tecnologie di carbon capture, che al momento sono ben lontane dell’impiego su larga scala. Se si vorrà rientrare nella soglia degli 1,5 gradi, le emissioni di gas serra del 2030 dovranno essere dimezzate rispetto a quelle di oggi. Mentre la neutralità carbonica dovrà essere raggiunta entro il 2050. Ad ogni modo, anche con un taglio drastico e immediato delle emissioni, gli effetti sul clima della riduzione non sarebbero visibili per circa 20 anni, quelli nella composizione atmosferica, invece, potrebbero farsi vedere nel giro di un lustro.

La differenza tra i vari scenari di riscaldamento

L’Ipcc ipotizza quattro principali scenari di riscaldamento. Il primo è quello che si avrebbe con 1,5 gradi in più rispetto al periodo pre industriale, il secondo con 2 gradi, il terzo con 3, e il quarto con 4 o più. Anche solo tra i primi due, la differenza è considerevole. Con 1,5 gradi di riscaldamento, il mondo potrebbe ancora avere le barriere coralline e il ghiaccio artico d’estate. Con 2 gradi di riscaldamento, quasi sicuramente no. In sostanza, 1,5 gradi sono il limite per mantenere il mondo simile a come lo si conosce oggi. Oltre la soglia, intere comunità potrebbero dover cambiare vita, lasciando i luoghi in cui sono cresciute. Il problema si pone soprattutto per gli insediamenti posti al livello del mare. Secondo il rapporto, è difficile che l’umanità riesca a mantenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 gradi centigradi. Tutto ciò, richiede azione immediata, dato che secondo il rapporto, è probabile che le politiche attuali porteranno la temperatura media della Terra ad aumentare di 3,2 gradi nel 2100.

Caldo estremo, umidità e bombe d’acqua

Gli effetti dei vari livelli di riscaldamento sono illustrati in un’infografica. In tutti gli scenari, la temperatura massima del giorno più caldo dell’anno è prevista in significativo aumento, con punte del 150% nelle regioni monsoniche, nelle zone temperate e in quelle semiaride, come quelle del Mediterraneo meridionale. Nella seconda riga del grafico, si vede come le zone che già in questo momento sono caratterizzate da una bassa umidità del suolo, vedranno questo dato diminuire ulteriormente. Di contro, nelle aree particolarmente umide tutto l’anno, questo dato aumenterà considerevolmente. In sostanza, gli estremi diventeranno ancora più estremi. Lo stesso vale per le precipitazioni più copiose dell’anno, che saranno sempre più simili ai nubifragi che abbiamo visto diventare sempre più frequenti negli ultimi anni, e che hanno colpito anche nel nostro Paese, ad esempio nelle Marche.

Perdita di biodiversità, morti per il caldo e minore produzione di cibo

I cambiamenti climatici avranno effetti tanto più gravi quanto maggiore sarà la loro entità. Nel grafico qui sotto, l’Ipcc illustra come il rischio di perdita di biodiversità, di problemi di salute negli esseri umani dovuti al calore e della diminuzione della produzione di cibo cambierebbero nei vari scenari di riscaldamento. Le immagini sono eloquenti, ma è importante notare che la relazione tra l’aumento della temperatura e quello dei rischi non è lineare.

I punti di non ritorno

Ciò si deve all’esistenza di alcuni tipping points, ovvero punti di non ritorno che una volta innescati non possono più essere fermati. Ad esempio, i ghiacciai montani e artici riflettono la luce solare, limitando il riscaldamento della Terra. Ad un certo punto, però, il loro scioglimento potrebbe essere tale da innescare un ciclo vizioso impossibile da fermare in cui più scioglimento porta a un maggior incremento della temperatura, che a sua volta comporta ancor più scioglimento, e così via. Altri tipping points riguardano le foreste pluviali equatoriali, che potrebbero arrivare al punto di non rigenerarsi più, e lo scoiglimento del permafrost, che rilascia nell’atmosfera il metano, gas serra di breve durata, ma 30 volte più potente dell’anidride carbonica. Infine, il riscaldamento degli oceani potrebbe cambiare la circolazione delle correnti, con conseguenze imprevedibili. Ad ogni modo, maggiora sarà il riscaldamento, peggiori saranno i suoi effetti. Anche agendo subito, il livello dei mari continuerà a salire per millenni, ma quando si fermerà e quanto sarà salito sono correlati a quanto aumenterà la temperatura.

Cosa dobbiamo fare?

Ma ciò non vuol dire che non ci sia modo di rispettare i tempi. Stando ai dati del 2020 analizzati, l’umanità ha ancora il 50% di probabilità di tornare sotto gli 1,5 gradi di riscaldamento dopo un picco iniziale superiore a questa soglia. Nel complesso e con adeguati interventi politici, sociali ed economici, da qui al 2050, la possibilità di restare sotto i 2 gradi è del 67%. Mantenendo le politiche attuali, nelle quali rientrano anche gli investimenti nelle fonti fossili già pianificati, invece, il limite di 2 gradi verrà infranto con una probabilità dell’83%. I calcoli sono stati fatti considerando che a mille gigatonnellate di CO2 emessa nell’atmosfera corrisponde un aumento di 0,45 gradi Celsius.

Azioni concrete

Il rapporto suggerisce di incrementare la quota di solare ed eolico nel mix energetico, migliorare l’efficienza energetica, rendere le città adatte a pedoni e ciclisti, ridurre l’inquinamento da azoto prodotto dall’agricoltura, ridurre lo spreco alimentare e promuovere diete sostenibili, ripristinare gli ambienti naturali, tagliare rapidamente le emissioni di metano. Il documento fa notare come anche i privati e i piccoli produttori abbiano la possibilità di passare alle energie rinnovabili e di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento per evitare black-out. Si legge poi di mitigazione dei processi produttivi e di un uso circolare dei materiali. Si sottolinea l’importanza dei veicoli elettrici e di come questi siano diventati sempre più diffusi grazie al miglioramento delle batterie.

Le città dovranno essere sviluppate in maniera compatta e con una pianificazione chiara, favorendo la mobilità sostenibile di pedoni e ciclisti. I luoghi di lavoro devono essere vicini alle abitazioni e facilmente raggiungibili con il trasporto pubblico. La pianificazione dovrà essere il più possibile a lungo termine. le industrie dovranno preferire materiali sostenibili, e la loro estrazione dovrà essere supportata da una rigenerazione degli ecosistemi che li hanno generati. Per quanto riguarda l’alimentazione, la coltivazione e l’allevamento, si deve tornare a un approccio comunitario, che riduca le distanze percorse e si integri con la protezione e la conservazione degli ecosistemi. La conservazione e il trattamento dell’acqua, nello specifico, necessitano di particolare attenzione. Adottando queste soluzioni, non solo si mitigherà il cambiamento climatico, ma si migliorerà la qualità delle vita delle persone. La protezione ambientale deve essere coniugata con quella delle comunità più a rischio, che hanno bisogno di interventi più drastici per adattarsi al cambiamento climatico.

I soldi ci sono

Tutte queste misure vengono considerate dall’Ipcc «implementabili tecnicamente nell’immediato» dati la volontà politica e l’allocazione di fondi, che le regioni più ricche dovranno versare a quelle più pover in modo che l’adattamento possa avvenire per tutti. Inoltre, l’Ipcc fa notare come le soluzioni possono essere implementate veramente solo quando esiste una collaborazione tra governi, società civile e settore privato. Il problema non è economico, dato che viene ribadito più volte come il denaro ci sia, ma manchi la volontà di spenderlo per fare ciò che serve. Le scelte devono favorire lo sviluppo inclusivo, dare priorità alla riduzione dei rischi, a soluzioni eque e alla giustizia. Nello specifico, l’adattamento deve avvenire entro gli anni 2030, prima che le condizioni climatiche lo rendano troppo difficile da attuare, e deve fare parte di un sistema che non rinunci alla crescita economica. Anche queste azioni sono state riassunte dall’Ipcc in un’infografica.

Tecnologie sempre più economiche

Rispetto al 2010, la produzione di energia solare è diventata più economica dell’85%, quella eolica del 55%, e la produzione di batterie agli ioni di litio dell’85%. La volontà politica, e l’allocazione di fondi, al momento, però, sembrano non esserci, dato che su scala globale, i fondi destinati ai combustibili fossili sono ancora maggiori rispetto a quelli dedicati all’energia verde. Una volta ridotte drasticamente le emissioni, ce ne saranno alcune che non possono essere azzerate, derivanti dall’agricoltura dall’aviazione, dai trasporti e da alcuni processi industriali. Queste dovranno essere rimosse dall’atmosfera con tecnologie di carbon capture che al momento sono in fase embrionale.

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