La difesa del medico arrestato per la morte della moglie: «Nessun avvelenamento. Lei beveva, io quasi mai»

Determinanti, nella ricostruzione degli eventi, la causa e l’ora della morte. E quella bottiglia di vino «avvelenata»

Dopo giornate di fuoco, quella di oggi potrà imprimere una svolta determinante al caso di Giampaolo Amato, accusato dell’omicidio della moglie Isabella Linsalata, che sarebbe avvenuto il 31 ottobre 2021. Il medico 64enne, infatti, affronterà oggi – 21 aprile – l’udienza di Riesame per la scarcerazione. Infuocate le accuse, agguerrita la difesa. Entrambe, anche se in modo speculare, si concentrano sull’autopsia, sull’ora del decesso, e su quella bottiglia di vino contenente benzodiazepine che la defunta avrebbe bevuto nel corso del loro ultimo appuntamento.


La causa della morte

Nessun avvelenamento: Isabella Linsalata sarebbe morta un «coagulo intra-cardiaco», un trombo tra cuore e polmoni, e non per un mix letale di farmaci che le avrebbe somministrato il marito Giampaolo Amato. Almeno questo è quello che sostengono i consulenti medico-legali della difesa – i professori Gerardo Martinelli, Rossella Gottardo e Roberto Agosti –, che sembrano così avvalorare la tesi dell’ex medico di Bologna. Amato, infatti, ha sempre rigettato ogni accusa: «Non ho commesso nessuno dei reati che mi sono contestati. Non ho ammazzato nessuno, non detengo farmaci di quel tipo né li ho mai presi dall’ospedale in cui lavoro», ha affermato. Il riferimento è a Midazolam e Sevoflurano, rispettivamente il sedativo e l’anestetico rilevati nel corpo di Linsalata. I consulenti medico-legali sostengono che, per quanto riguarda il Midazolam, «le quantità riscontrate non possono avere avuto un ruolo causale nel decesso», né si può «ipotizzare un suo ruolo incapacitante» rispetto alla vittima. Che quindi, dopo l’assunzione, sarebbe stata comunque in grado di muoversi e agire. Per quanto riguarda il Sevoflurano, invece, hanno puntualizzato che «in casa non c’erano mezzi idonei alla somministrazione e altri strumenti (pezza o asciugamano imbevuti) avrebbero lasciato tracce di sfregamento sulla bocca». Lo riporta il Resto del Carlino. Eppure il medico legale della Procura, Guido Pelletti, è di diverso avviso: gli esami effettuati infatti avrebbero portato a concludere che lo morte di Isabella fu «causata da intossicazione acuta da xenobiotici». E in particolare proprio dal Sevoflurano, a cui sarebbe stata esposta «alcuni minuti/qualche ora prima della morte».


L’ora del decesso e i farmaci letali

La difesa in ogni caso non contesta solo la causa, ma anche l’ora della morte. La tesi è incentrata sulla «presenza di midriasi fissa» (mancata risposta della pupilla alla luce) della defunta, che a detta loro permetterebbe di stabilire che «l’epoca del decesso è da identificarsi 3/4 ore prima della constatazione» delle 12.28 del 31 ottobre. Non è un fattore da poco, dal momento che in quell’orario Amato aveva già timbrato l’accesso in ospedale. Il consulente della Procura appare tuttavia dubbioso, e ritiene che «non vi sono elementi utili a definire l’epoca del decesso». Si limita dunque a fissarla indicativamente nella notte tra il 30 e il 31 ottobre. Ci sono ulteriori dettagli che vengono sottolineati per rispondere alle accuse. A cominciare dal mancato reperimento di Midazolam e Sevoflurano durante la perquisizione a casa di Amato. Nessuno degli ospedali in cui lui lavorava, inoltre, avrebbero denunciato ammanchi di quel tipo. D’altro canto, sostengono gli inquirenti, l’uomo, in servizio all’Ausl, avrebbe potuto facilmente sottrarre i flaconi da uno dei nosocomi in cui lavorava. La difesa tuttavia ricorda come anche Linsalata avrebbe potuto procurarsi autonomamente quel tipo di medicinali, dal momento che lei stessa lavorava come medico di base e ginecologa. Amato, davanti agli inquirenti, ha insistito sul fatto che sua moglie facesse da tempo uso di psicofarmaci.

La bottiglia di vino

«Isabella mi disse di aver fatto degli esami e di essere risultata positiva alle benzodiazepine. Mi sembrò strano, ma non quantificò i valori. Qualche volta prendeva dei farmaci per stare tranquilla. Mi raccomandai di stare attenta, mi rispose ’prendo poca roba per stare un po’ calma, in questo momento un po’ così, ci sono duemila preoccupazioni, ci sta’», ha affermato il medico. Rispetto all’ultima sera di vita di Linsalata, quando si ipotizza che la donna abbia bevuto un bicchiere di vino alterato dalle benzodiazepine, Amato racconta che «era stanca, dopo cena si mise sul divano. Lei beveva, io quasi mai. Anna Maria venne a casa nostra, sentendola impastata, ma dopo Isabella si riprese». Tuttavia Anna Maria, ovvero la sorella di Isabella, non sembrò andarsene a cuor leggero: aveva trovato la donna «in condizioni un po’ penose, come ubriaca e rimbambita», incapace di reggersi in piedi. E aveva dunque deciso di sottrarre la bottiglia di vino incriminata dalla casa, conservandola per tre anni. Analizzata dai carabinieri, è risultata contenere le benzodiazepine trovate in dosi massicce nel corpo della Linsalata. Quest’ultima aveva infatti raccontato ad Anna Maria di avere bevuto a cena un vino «amaro», portato dal marito, che però non l’aveva bevuto. Sua sorella decise quindi di prendere la bottiglia, già lavata, dal bidone. Non trovò subito un laboratorio per farla analizzare, ma la sua decisione adesso ha impresso una svolta decisiva nella ricostruzione dei fatti. I moventi del gesto estremo che avrebbe compiuto Amato, secondo la Procura, sono due: un primo, economico, legato alla casa intestata alla moglie. Un secondo, sentimentale: avrebbe voluto liberarsi dei vincoli coniugali con Isabella, che non voleva concedergli il divorzio, e vivere appieno la relazione che portava avanti già da anni con la sua giovane amante.

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