È passato un anno dalla morte di Mahsa Amini. La ventiduenne curda arrestata e uccisa dalla polizia morale il 16 settembre scorso a Teheran per aver indossato male l’hijab. Da quel tragico evento – che ha fatto da detonatore di una frustrazione politica, sociale, culturale – sono scoppiate le proteste in varie parti dell’Iran. Sebbene per le strade non si vedano più i cortei partecipati di un anno fa, il dissenso è tutt’altro che sopito. Ha assunto nuove forme, metodi, tempi. «La nuova generazione è molto coraggiosa», dice a Open la regista iraniana Nahid Persson. Lei conosce bene la brutale repressione del regime iraniano. Nel 2006 è stata arrestata dalle autorità con l’accusa di aver infamato il suo Paese dopo la pubblicazione del documentario Prostitution behind the Veil di 3 anni prima. «Con i miei film faccio tutto ciò che è in mio potere per portare la voce del mio popolo al mondo», spiega. Dopo Be My Voice, in cui racconta la storia di Masih Alinejad, giornalista e attivista, e di milioni di donne iraniane che si ribellano ogni giorno al velo islamico, Persson torna dietro la telecamera per dare voce a un’altra storia. Quella di Roohollah Zam “il figlio del Mullah”, anch’egli giornalista e attivista che, dopo aver denunciato il riciclaggio di denaro del regime, è stato attirato con l’inganno prima in Iraq poi in Iran dal suo esilio in Francia, e dopo 14 mesi di prigionia e un processo-farsa è stato infine giustiziato con l’accusa di Mofsed-e-filarz («corruzione sulla Terra»). Son of the Mullah è l’ultimo lavoro di Persson, iniziato nel 2019 «in clandestinità», un anno prima dell’impiccagione di Zam avvenuta all’alba di sabato 12 dicembre.
Cosa ha provato quando ha visto migliaia di donne togliersi l’hijab e protestare dopo la morte di Mahsa Amini?
«È stato fantastico vedere scendere in strada così tante donne, bruciare i veli, protestare con lo scopo di liberarsi da questo barbaro regime. Un anno dopo la morte di Mahsa Amini e nonostante le brutali violenze perpetrate dalle autorità iraniane, molte donne continuano a uscire di casa senza hijab. Devo ammettere che è stato un percorso molto lungo: anche noi all’epoca – dopo l’obbligo imposto dalle autorità relativo al velo islamico – siamo scese in strada e abbiamo protestato. Ma a differenza di allora oggi ci sono gli smartphone e soprattutto i social media che hanno permesso una diffusione molto più ampia di quello che stava accadendo nel Paese. In un certo senso gli iraniani sono loro stessi giornalisti. Filmano, parlano, denunciano e diventano la voce di Mahsa e di tanti altri e io, coi miei documentari, trasmetto la loro voce al mondo».
Le autorità continuano a reprimere ogni tipo di dissenso, la libertà di stampa è assente in Iran. Lei non ha paura?
«La paura è esattamente il sentimento che vuole farci provare il regime. Vogliono spaventarci per costringerci al silenzio e per farlo ricorrono a qualsiasi mezzo. Ma in realtà il regime è debole altrimenti non avrebbe rapito e ucciso la sua stessa gente. Ruhollah Zam, ad esempio, era un giornalista e attivista giustiziato a morte dopo aver denunciato il riciclaggio di denaro del regime nel suo canale di notizie AmadNews. Era fuggito dall’Iran dopo le proteste scatenatesi in seguito delle elezioni del 2009, riuscendo a ottenere asilo politico in Francia. Qui, venne attirato in una trappola, rapito e portato in Iran. Dopo un processo-farsa, una confessione ottenuta con la forza e 14 mesi di prigione, venne infine giustiziato. Anche mio fratello è stato ucciso nel 1979 dopo esser stato rapito dai Khomeinisti. Le nostre persone più intelligenti, determinate, più istruite siedono nelle prigioni dell’Iran. E ora che si avvicina l’anniversario di Mahsa Amini hanno iniziato ad arrestare in massa le persone per spaventare gli organizzatori di possibili manifestazioni anche in ricordo della giovane curda e hanno rapito e messo in prigione i parenti di coloro che sono stati uccisi durante le proteste di un anno fa».
Che cosa rappresenta per lei la telecamera? È uno strumento di disobbedienza, di lotta?
«La macchina fotografica è stata a lungo la mia arma. È proprio di questo che il regime ha paura. È proprio per questo che molti giornalisti, registi, cantanti rap si trovano ora in prigione. Perché utilizziamo la nostra arte per combattere questo regime brutale».
Perché nei suoi documentari è sempre presente con il corpo e con la voce? Ha un significato politico?
«Io sono sempre presente nei mie film perché scelgo sempre soggetti che mi hanno colpita in prima persona. Sono un’iraniana che vorrebbe essere nel proprio Paese e tra i suoi connazionali. Ma da 40 anni sono costretta a vivere in esilio. Tuttavia, mi avvicino sempre così tanto ai protagonisti dei mie documentari che diventa inevitabile entrare nella storia. Sono con loro, faccio parte della loro storia e ne sono influenzata».
Lei alla fine degli anni ‘70 ha partecipato alla rivoluzione contro lo scià?
«Non essere attivista al giorno d’oggi in Iran è più insolito che esserlo. La maggior parte degli iraniani e iraniane sta facendo del proprio meglio per ottenere un Paese libero. Ma con i miei film faccio tutto ciò che è in mio potere per portare la voce del mio popolo al mondo. La rivoluzione del 1979 è stata la rivoluzione del popolo che gli islamisti ci hanno rubato ed io ho partecipato alla rivoluzione contro lo scià per un mondo più giusto, per l’uguaglianza, la libertà e la democrazia e non per un regime brutale che uccide il suo popolo».
Pensa che in futuro le cose in Iran possano cambiare?
«Ho grandi speranze. La nuova generazione è coraggiosa. In Iran abbiamo donne e uomini così coraggiosi che rischiano la vita per abbattere il regime. Ma finché i governanti di altri Paesi avranno rapporti economici con l’Iran e stringeranno loro la mano, l’Iran non sarà libero».
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