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Suicidio assistito, perché i familiari dell’attrice Sibilla Barbieri hanno denunciato la Asl romana

16 Novembre 2023 - 18:08 Juanne Pili
L'attrice e produttrice romana è morta in una clinica in Svizzera. Ma i suoi parenti hanno scelto di proseguire la sua battaglia perché i malati terminali possano, con maggior certezza, ottenere il suicidio assistito anche in Italia

Sibilla Barbieri, attrice, regista e produttrice romana, è morta il 6 novembre a 58 anni mediante suicidio assistito in Svizzera. Da tempo era affetta da un tumore irreversibile che le procurava delle sofferenze insopportabili. Il figlio, Marco Perduca, e il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, si sono autodenunciati per averla aiutata. Ancora una volta, come per il caso di Fabio Antoniani (DJ Fabo), la storia si ripete: in assenza di una legislazione chiara sul tema, chi può permetterselo affronta un viaggio fuori dall’Italia per porre fine alle proprie sofferenze. Il governatore del Lazio Francesco Rocca si è espresso in difesa della decisione della ASL Roma 1 di negare il suicidio medicalmente assistito alla donna.

Il tutto sembra ruotare attorno alla presunta mancata dipendenza da «sostegni vitali». Ma cosa si intende esattamente con questo termine? Leggendo quanto riportato dal Comitato etico territoriale (CET) sembrerebbe che Barbieri avesse tutti i requisiti. Per questo i familiari dell’attrice hanno deciso di denunciare la Asl. L’avvocato Luciano Butti (Patto Trasversale per la Scienza), i medici anestesisti Filippo Testa (divulgatore della pagina Pop Medicine) e Mario Riccio (consigliere generale dell’Associazione Luca Coscioni) spiegano a Open le criticità dell’intera vicenda.

Il rifiuto della richiesta per il suicidio assistito

Secondo il governatore del Lazio Francesco Rocca, il «no» al suicidio medicalmente assistito da parte della ASL Roma 1 sarebbe motivato dai mancati «trattamenti di sostegno vitale» impiegati per tenere in vita Sibilla Barbieri. Non è tardata la risposta del tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, che ha accompagnato Barbieri lungo il suo percorso. Cappato cita in particolare quanto accertato dal Comitato etico territoriale (CET) del Lazio (Area 1), in merito alla presenza di trattamenti di sostegno vitale. Prima ancora si era espressa la diretta interessata, con un ultimo inequivocabile video:

«Conoscendo la sentenza Cappato/DJ Fabo – spiegava Barbieri -, ho provato a chiedere aiuto per il suicidio assistito a casa mia. In Italia. L’ho chiesto alla mia ASL, che ha mandato una commissione a valutare il mio caso e che ha deciso che io non rientro nei casi possibili, perché (cito letteralmente): «non sono attaccata a macchinari di sostegno vitale» […]. Tra l’altro le cose cambiano».

Secondo la Asl «si è potuto accertare come [Barbieri non fosse, Nda] sottoposta ad alcun trattamento qualificabile a titolo di sostegno vitale, posto che non è sottoposta ad alcuna terapia (né strumentale, né farmacologica) che possa essere qualificata a questo titolo».

Per chi volesse approfondire segnaliamo i principali punti di riferimento normativi: la Legge 219 del 2017; l’ordinanza 207 della Corte costituzionale del 2018 e la sentenza della medesima Corte del 2019; infine la sentenza della Corte d’assise di Milano che nel 2019 si è pronunciata sul suicidio assistito di Fabio Antoniani (DJ Fabo) – nota come «sentenza Cappato/Antoniani» -, l’uomo in questo percorso si era avvalso dell’aiuto dell’Associazione Luca Coscioni.

Manca ancora una legge specifica

Il 10 febbraio 2023 il CET si era espresso favorevolmente in merito alla richiesta di verifica delle condizioni previste nella sentenza 242-19 della Corte costituzionale (Cappato/Antoniani), ai fini di autorizzare l’accesso legale al suicidio medicalmente assistito. «Se punto cardinale è la Legge n. 219/2017, la bussola che detta l’itinerario è la sentenza della Corte costituzionale», riporta il documento del Comitato etico. Lì infatti si elencavano le condizioni necessarie alla suicidio assistito, già individuate nell’ordinanza n. 207/2018 della stessa Corte; previo percorso di accertamento mediante il Servizio sanitario nazionale. Il Comitato etico denuncia quindi una «inerzia del legislatore», manca infatti una legge precisa che regoli la materia.

«In ogni ordinamento giuridico, la disciplina giuridica del suicidio assistito è questione complessa – spiega il professor Butti -, che tocca problemi medici, costituzionali ed etici. Da un lato, infatti, vi è la libertà di cura e di “gestione” del proprio corpo, che solo in casi particolari può essere limitata dalla legge. Dall’altro, vi è il fatto che, nella maggior parte dei casi, il paziente terminale che intende porre fine alla propria vita in modo non traumatico e foriero di ulteriori sofferenze non è in grado di procedere da solo. Il paziente richiede perciò assistenza, e proprio qui nasce il problema giuridico: è evidente infatti che la collaborazione al suicidio altrui può essere considerata legittima solo in presenza di condizioni ben chiare, altrimenti si sconfina nell’arbitrio sulla vita delle persone».

Arriviamo quindi all’elefante nella stanza: ancora non sembra che ci sia la volontà politica di approvare una legge ad hoc. «Nei Paesi seri – continua l’avvocato -, queste tematiche si discutono in modo approfondito nella società civile e in Parlamento, che alla fine trova un equilibrio e definisce le condizioni di legittimità del suicidio assistito nel proprio territorio. In Italia, invece, nonostante i ripetuti solleciti della Corte costituzionale, il Parlamento non è riuscito a deliberare alcunché, nonostante l’alternarsi di diverse maggioranze nel Paese».

Perché i tribunali non possono colmare le lacune legislative

Sarebbe interessante a questo punto chiarire come mai le sentenze della Corte costituzionale non hanno valore di legge. «Non si può fornire una risposta unica o semplice – continua Butti -, e di norma la creazione del diritto spetta al Parlamento, non ai giudici. Tuttavia le cose sono un po’ più complesse di quanto questa affermazione generale lasci intendere. In primo luogo occorre distinguere fra i normali Tribunali o anche Corti superiori (come la Cassazione) e i Giudici costituzionali (come la Corte costituzionale). I primi hanno di norma (per lo meno nei Paesi continentali) la funzione di “interpretare” e “applicare” – non di “creare” – il diritto».

Le Corti costituzionali di norma hanno invece il compito di valutare la costituzionalità delle leggi esistenti, cancellando le norme incostituzionali. «Quindi anche queste Corti per lo più non “creano”, ma piuttosto “eliminano” norme giuridiche in quanto incostituzionali – precisa l’avvocato -. Tuttavia eliminare una norma (perché incostituzionale) significa di fatto modificare l’ordinamento giuridico vigente. Inoltre, in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, le Corti costituzionali possono emettere sentenze cd. “interpretative di accoglimento” oppure “additive”, che – in pratica – creano una nuova regola». È il caso della sentenza del 2019 sul suicidio assistito.

La decisione della ASL Roma 1

Torniamo alle affermazioni del governatore Rocca in merito alle motivazioni che la Asl gli avrebbe fornito in un report: «Cappato mi ha tirato in ballo, a sproposito – ha dichiarato il Governatore -, perché lui forse è abituato in maniera diversa ma io come presidente della Regione non ho interferito mai nelle attività proprie delle commissioni mediche. Anzi trovo offensive le parole di Cappato verso questi professionisti seri che hanno esaminato il caso».

Secondo Rocca la Asl si sarebbe espressa in maniera chiarissima in due occasioni. Il Governatore spiega, che secondo l’ente sanitario «non ricorrevano le condizioni previste sulla parte del sostegno vitale perché i pazienti che richiedono il fine vita devono essere sostenuti artificialmente: questo è uno dei requisiti individuati dalla Corte e mancava del tutto. Questo è un nodo squisitamente etico e politico, che non riguarda invece i professionisti serissimi che in due occasioni differenti hanno esaminato il caso della signora Sibilla».

Effettivamente qui il problema sembra essere l’interpretazione di cosa si intenda per «sostegno vitale». Un punto sul quale il CET si era espresso, riconoscendo – come vedremo a breve – che nel caso di Barbieri era possibile riscontrare anche questo requisito. Cappato lamenta quindi che la Asl abbia, a suo dire, deliberatamente ignorato il parere del Comitato etico, che in quanto tale era competente nel sciogliere quel «nodo squisitamente etico e politico». Ed è per questo che i familiari di Barbieri hanno deciso di denunciare l’Ente.

Le condizioni mediche di Sibilla Barbieri

Barbieri si è vista rimuovere la mammella sinistra a causa di un «carcinoma duttale infiltrante metastatico». La donna si è sottoposta da gennaio 2023 a terapia antiblastica; successivamente arrivano anche la terapia ormonale, radiante e mediante anticorpi monoclonali. Da marzo il tumore avanza a livello polmonare, epatico e osseo. A settembre si aggiunge una lesione pancreatica. A ottobre si manifesta una metastasi cutanea al cuoio capelluto. Si riscontreranno anche numerosi «secondarismi cerebrali».

Sibilla interrompe quindi le terapie antitumorali, che non sono sufficienti a interrompere il decorso della malattia. Si sottopone solo a terapia antalgica e altre di supporto. Prende quindi accordi con una organizzazione svizzera per ottenere il suicidio assistito entro la prima metà di ottobre.

A conferma delle condizioni in cui versava Barbieri l’Associazione Luca Coscioni ha reso pubblici anche il certificato medico del Policlinico Umberto I (10 ottobre 2023) e la relazione del dottor Mario Riccio, consigliere Generale dell’Associazione Coscioni, noto per essere l’anestesista che staccò la spina a Piergiorgio Welby e che ha curato la parte tecnica del primo suicidio assistito in Italia.

«La Signora Barbieri assume una corposa terapia antalgica – spiega Riccio nella relazione che supporta la richiesta di suicidio assistito – costituita da Targin, Pregabalin, Citalopram, Effentora, in dosaggi massimali. La maggioranza di questi farmaci è di derivazione morfinica. Le è viene consigliata terapia di sostegno con ossigeno. Le viene indicata una terapia per combattere la stipsi. Tale terapia è sia strumentale (clisteri) che farmacologica, a cui si aggiunge l’indicazione di bere ben due litri di acqua al giorno. Ora, le recenti sentenze e decisioni giurisprudenziali in merito hanno definitivamente determinato che le terapie sopra descritte sono tutte da intendersi quali forme di sostegno vitale. […] Inoltre, sempre per la sua condizione, potrebbe perdere a breve la capacità di intendere e volere».

Quando la patologia è causa di sofferenze intollerabili

Nella sua relazione il dottor Riccio tratta il caso di Barbieri rifacendosi anche alla sentenza della Corte di Cassazione sul caso di Davide Trentini, affetto da sclerosi multipla, che ha dovuto ugualmente andare in Svizzera per ricorrere al suicidio assistito. «Ho letto con molto interesse le considerazioni del collega, spiega il dottor Testa -, Trentini non era più in grado di svolgere un grado di vita autonoma e richiedeva assistenza continua per muoversi, mangiare e lavarsi. Sibilla era affetta da malattia oncologica con localizzazioni metastatiche diffuse, non più responsiva ai trattamenti; sebbene ancora verosimilmente autonoma nei propri bisogni primari rifiuta ulteriori cicli di chemioterapia. Alla paziente infatti, oltre all’ossigenoterapia al bisogno, vengono prescritti farmaci analgesici oppiodi forti. Ne sono prescritti poi altri per il controllo degli effetti collaterali, come nausea, vomito e stipsi. Rendendo le ultime fasi della malattia difficilmente sostenibili».

Nel caso specifico di Sibilla Barbieri, la donna avrebbe potuto comunque sopravvivere? «Per la presenza di metastasi a livello polmonare – continua il medico -, sarebbe andata incontro alla morte per svariati motivi, che non possiamo determinare a priori. Per essere chiari, avrebbe potuto soffrire di insufficienza respiratoria secondaria a polmonite, che le avrebbe causato implementazione di ossigeno, ulteriori antibiotici, ricoveri ospedalieri. Oppure occlusione bronchiale, con morte per asfissia ingravescente; o per infarto polmonare, che le avrebbe causato morte per emorragia interna e asfissia per infarcimento polmonare di sangue».

Il piano della sofferenza del paziente, come vedremo, è una delle condizioni previste per ottenere il suicidio assistito. Eppure ancora oggi sembra che conti più il trattamento dei corpi come macchine da aggiustare, mentre dovrebbe essere importante soprattutto la figura del paziente come persona e dunque la sua dignità.

«Al giorno d’oggi è venuto a decadere l’atteggiamento paternalistico della medicina e si è orientati verso un percorso in cui viene posto soprattutto il paziente al centro del percorso diagnostico e terapeutico – continua il medico -, con il fine di avere la migliore aderenza al piano proposto e quindi al risultato. Allo stato attuale, la ricerca ha portato a risultati strabilianti in oncologia, con nuovi trattamenti che aprono a nuove prospettive sulla sopravvivenza in termini di anni dalla diagnosi, ma anche ulteriori problematiche, specie sulla qualità di vita. Sibilla infatti è andata incontro a 10 anni di chemioterapia (con molteplici protocolli sulla base del tipo di metastasi e sulla risposta al trattamento)».

Due analisi discordanti

Come vedremo nel paragrafo successivo, la relazione di Riccio in merito al genere di dipendenza da farmaci in cui si trovava Barbieri è corroborata dalle analisi del CET. Anche sa la Asl ha preso in maggiore considerazione quella del Comitato tecnico, il quale si è espresso in maniera parallelamente opposta.

«Come ho riportato nella mia perizia, una dipendenza dal sostegno vitale c’era eccome – spiega ora il dottor Riccio -. In particolare perché era dipendente dall’ossigeno. Lo si vede anche nell’ultimo video di Barbieri». Questo risultava già quando la Asl fece gli ultimi accertamenti delle sue condizioni? «A me è sembrato come se avessero visto due pazienti totalmente diverse – continua il medico -. Secondo la nostra valutazione Barbieri era sottoposta a una terapia antalgica molto importante. Ed era anche con l’ossigeno e le consigliavano già di combattere la stipsi, che avrebbe portato al blocco intestinale e al decesso». 

Forse non si è tenuto conto della prevedibile evoluzione della malattia? «La dimensione evolutiva è altrettanto importante – conclude Riccio -. Anche se la perizia deve prendere in considerazione le condizioni del paziente. Hanno negato quella che a nostro parere era una condizione presente. La stessa che aveva visto il Comitato etico. Del resto, nei Paesi dotati di una legge apposita sul suicidio medicalmente assistito, esistono altri criteri importanti. Per esempio in Canada deve esserci una prognosi inferiore ai 18 mesi. Da noi questo elemento del sostegno vitale è un unicum».

L’analisi delle condizioni necessarie per il suicidio assistito da parte del CET

Abbiamo visto quindi, che per sopperire al vuoto normativo è dovuta intervenire la Corte costituzionale, con la sentenza del 2019 che individua quattro condizioni in cui il suicidio assistito è legittimo: deve esserci una patologia irreversibile; comportare sofferenze intollerabili; che implichino la dipendenza da mezzi di sostegno vitale; infine il paziente deve essere nelle condizioni di poter scegliere liberamente e consapevolmente).

«E’ importante sottolineare che la Corte costituzionale non ha il compito di individuare la disciplina “migliore”», precisa Butti. Questo compito infatti spetterebbe al Parlamento. «Un compito che da molti anni non sta assolvendo – continua l’avvocato -. E’ presumibile che si avvii un procedimento penale a carico delle persone che hanno aiutato Sibilla, le quali, in caso di condanna, rischiano una pena consistente». Tutto ruota attorno alla valutazione scientifica relativa alla nozione di “trattamento di sostegno vitale”. Per tutte le quattro condizioni il CET sembra essersi espresso con una chiara approvazione. Ecco come venne svolta la valutazione:

  • Siamo di fronte a una patologia irreversibile? – Il CET riconosce che le condizioni mediche di Sibilla erano in continuo peggioramento, senza che i trattamenti potessero arrestare tale situazione. Il quadro clinico «fa definire con assoluta certezza» che le la patoligia era irreversibile.
  • La patologia è causa di sofferenze intollerabili? – Qui il CET cita un passaggio della richiesta di SMA formulata dalla donna: «non voglio essere sottoposta ad ulteriori soferenze per me intollerabili».
  • La persona è tenuta in vita con mezzi di sostegno vitale? – Questo è forse il punto più critico della vicenda. Anche qui bisogna stare attenti a non dare per scontato il significato di certi concetti. Per «sostegno vitale» non si intende solo la «dipendenza fisica da uno strumento – spiega il CET – o da una macchina». Per esempio, nutrizione e idratazione artificiale generalmente non sono da considerarsi sostegno vitale, ma trattamenti medici e in quanto tali rifiutabili. Non di meno, qualsiasi trattamento interrotto il quale si verifichi la morte del malato (anche non immediatamente) è da ritenersi – secondo quanto riporta il CET – un «trattamento di sostegno vitale». Per tanto il Comitato riconosce che «si possa configurare per la paziente una condizione di dipendenza da farmaci che sebbene non necessari per il sostegno vitale siano utili per assicurarle un’accettabile qualità della vita e in qualche modo rappresentano un tentativo di attenuazione delle ulteriori complicanze legate alla inevitabile evoluzione della sua patologia».
  • È capace di assumere decisioni libere e consapevoli? – Probabilmente si tratta del quesito che trova tutti concordi. Secondo il CET Sibilla Barbieri era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali.

I riferimenti scientifici per una legge apposita sembrano dunque esserci. «Le probabilità che ciò possa avvenire in tempi brevi sembrano scarse; – conclude il professor Butti -, una classe politica che ripetutamente critica un presunto esagerato interventismo della magistratura e che però non compie il proprio dovere di legiferare mostra scarsa consapevolezza del proprio ruolo e dei propri doveri».

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