L’inattivismo: cos’è il negazionismo del nuovo millennio

Più subdolo, meno evidente e soprattutto divisivo. Ecco come le grandi industrie inquinano il fronte ambientalista e la nostra mente

L’estate 2023 è stata la più calda mai registrata. Quante volte avete sentito questa frase tra Tg e servizi meteo? Quali emozioni ha scatenato questo dato? E se vi dicessero che questa modalità comunicativa è una nuova forma di negazionismo climatico? Più subdolo, meno evidente e soprattutto divisivo: stiamo parlando dell’inattivismo climatico. Non è un caso che non conosciate questo fenomeno. La definizione di inattivismo climatico è molto recente perché è stata coniata con la pubblicazione di un libro: The New Climate War: The Fight to Take Back Our Planet (2021), scritto da uno dei più importanti climatologi al mondo, lo scienziato Michael Mann. Secondo Mann siamo passati a una nuova fase, i negazionisti del clima non possono più opporsi all’evidenza dei dati e dei fenomeni naturali estremi sempre più frequenti. Allora, secondo Mann, «le forze che ieri negavano, oggi puntano a procrastinare».


La distrazione di massa

È un negazionismo più soft che si basa «sull’inganno, sulla distrazione di massa» e sullo spostamento delle responsabilità, dalle aziende ai singoli cittadini. Molto spesso questa narrazione può provocare danni alla salute mentale delle persone generando un fenomeno che è a cavallo tra l’emozione e la patalogia: l’ecoparalisi, uno stato più problematico dell’ecoansia. Ecco, quindi, un manuale pratico per stanare gli inattivisti e per non essere preda della loro retorica. Si ringraziano il professore del Politecnico di Milano Stefano Caserini, esperto di mitigazione dei cambiamenti climatici, e lo psichiatra Matteo Innocenti del Centro di Terapia Cognitivo Comportamentale di Firenze per il loro contributo.


«Solo tu puoi salvare il pianeta»

Una pubblicità con un semplice messaggio: la responsabilità è delle singole persone. Nello spot citato da Mann nel suo libro si analizza la retorica distorta di un presunto attivismo climatico. “The crying indian” mostra un nativo americano attraverso un paesaggio inquinato e pieno di rifiuti, una voce fuori campo spiega «Le persone inquinano. Le persone possono smettere di inquinare» e allo stesso tempo la camera stringe sul volto dell’attore che versa una lacrima. I singoli cittadini sarebbero quindi gli unici responsabili dell’inquinamento, non le 100 aziende che dal 1988 hanno emesso il 71% di gas a effetto serra (Carbon Disclosure report 2017).  È un esempio lampante di una strategia utilizzata dalle società inquinanti per spostare la responsabilità dai loro impianti alle azioni delle singole persone che, per quanto possano impegnarsi, non potranno mai risolvere il problema da sole. È necessaria invece un’azione che contempli lo sforzo delle grandi aziende e della popolazione.

«Non mangiare carne, non prendere l’aereo, non usare l’auto»

Un discorso simile può essere fatto su alcune forme di attivismo climatico che, inconsapevolmente, portano avanti strategie comunicative inattiviste. Ricondurre la lotta contro i cambiamenti climatici a una condanna morale dello stile di vita del singolo è infatti controproducente: dicendo alla gente di non mangiare carne, non prendere l’aereo e non usare l’auto si rischia di allontanare le persone che si sentiranno private del loro stile di vita. L’unico effetto è «far stare male il prossimo», scrive Mann. «Così le persone possono sentirsi scoraggiate e si sentono anche magari frustrate nel non riuscire con la propria vita quotidiana ad affrontare seriamente il cambiamento climatico», sostiene Caserini. Ma un altro fine di questa strategia è quello di dividere il fronte ecologista, accampando pretese di una presunta purezza o superiorità di una base rispetto a un’altra. Così se il mondo del fossile è compatto e unito nei suoi fini, quello verde è invece occupato a farsi la guerra in casa.

«È troppo tardi»

Il catastrofismo non serve a niente, da una parte spaventa e blocca ogni risposta, dall’altra è scientificamente inattuale: siamo ancora in tempo. È fondamentale quindi comunicare nel modo adeguato tutte le informazioni a disposizione: «Non bisogna raccontare soltanto le criticità, i danni, gli impatti del cambiamento climatico, ma cercare di far capire anche quelle che sono le opportunità. Perché, se si spaventano troppo le persone alla fine non ne vogliono più sapere della crisi climatica, tiriamo giù la saracinesca», confessa Caserini che da anni gira l’Italia con la conferenza-spettacolo “A qualcuno piace caldo” che avvicina gli spettatori alla lotta climatica attraverso storie, animazioni e musica. «Lo stile di comunicazione deve essere non troppo allarmistico né troppo minimizzante» – spiega lo psichiatra Innocenti – «Il catastrofismo può generare due risposte distinte: il fatalismo o l’ecoparalisi. Quest’ultima è uno “stato emotivo come l’ecoansia ma è caratterizzato da perdita di speranza, senso di impotenza e depressione” come scrivo nel mio libro (Ecoansia)». Tutti possiamo provare queste emozioni, ma alcuni sono più coscienti o sensibili di altri. E se questi stati si sommano con altri malesseri le conseguenze possono essere gravi: «Seguo casi specifici di ecoansia, soprattutto giovani donne che iniziano a non voler fare figli o hanno paura di fare figli perché sono preoccupate che crescano in un mondo che vedono come distopico». Addirittura, spiega Innocenti, le forme più gravi di ecoparalisi indurranno la persona a evitare l’argomento del cambiamento climatico o addirittura a negarlo come strategia di difesa.

La cattura e lo stoccaggio del carbonio ci salverà (?)

Bisogna partire da un dato. Secondo l’Emissions gap report 2020 delle Nazioni Unite, nel 2019 a livello globale sono state emesse nell’atmosfera 52,4 Gigatonnellate (miliardi di tonnellate) di CO2, che salgono a 59,1 se si tiene conto del cambiamento nell’uso del suolo. E cosa propongono gli inattivisti per “ridurre” questo inquinamento? Un’unica soluzione che è invece solo un modo per procrastinare le emissioni: la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS). È bene chiarire che questa strategia è inclusa, insieme ad altre, nella Net Zero Industry Act dell’Unione europea, un programma all’interno del Green deal che punta a rendere il settore dell’industria a impatto zero. Non solo, anche il Sesto rapporto dell’Ipcc inserisce la CCS all’interno dei percorsi di mitigazione. Ci sono due “ma” come delineato dal rapporto: se nella produzione di gas e petrolio la CCS è considerata una tecnologia matura, non lo è altrettanto nel settore dell’energia, nella realizzazione del cemento e dei prodotti chimici. Inoltre, si aggiungono ostacoli economici, politici, tecnologici e ambientali. Il tutto a fronte di una capacità di stoccaggio di 1000 Gigatonnellate totali, superiore al fabbisogno necessario per mantenere la temperatura al di sotto del grado e mezzo entro il 2100. Ma alcuni potenziali siti di stoccaggio sono difficili da raggiungere e il tasso di diffusione della CCS è ancora molto lento. L’azione degli inattivisti è quella di puntare unicamente su questa strategia per salvare il pianeta, ma al momento gli impianti CCS attivi sono pochi. Per fare un esempio, a settembre 2023 in Europa ci sono solo 3 progetti operativi, 16 in costruzione e altri 44 in fase di sviluppo. Al largo di Ravenna, nel mare Adriatico, nel 2024 entrerà in azione l’hub per la cattura e lo stoccaggio del carbonio che punterà inizialmente a catturare 4 Megatonnellate (milioni di tonnellate) all’anno di CO2 e in una seconda fase più di 10 Megatonnellate per una capacità totale del sito di stoccaggio di 500 Megatonnellate (0,5 Gigatonnellate totali).

L’importanza della comunicazione

Perché allora la frase “L’estate 2023 è stata la più calda mai registrata” può essere considerata una forma di comunicazione inattivista? Non bisogna fermarsi al semplice dato che permette di fare il titolo al servizio o all’articolo, ma bisogna approfondire la notizia e ribaltare la prospettiva per risvegliare la coscienza delle persone. Così la frase iniziale diventerà: «L’estate 2023 sarà la più fresca registrata se non agiremo con politiche ambientali a favore del nostro Pianeta». Bisogna credere nel cambiamento e per farlo non è necessario diffondere paura tra le persone ma speranza. È questo il ruolo della comunicazione.

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