L'allarme del dipartimento di Stato Usa: questo pacchetto potrebbe essere l'ultimo «se il Congresso non approverà i nuovi finanziamenti della Casa Bianca»
Gli Stati Uniti hanno annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina dal valore complessivo di 175 milioni di dollari. In questa nuova tranche – per la quale sono stati utilizzate le «limitate risorse a disposizione», si legge sul sito del Dipartimento di Stato Usa – sono compresi munizioni per la difesa aerea, munizioni aggiuntive per sistemi di artiglieria ad alta mobilità, missili anti-radiazioni ad alta velocità, missili anti-tank, munizioni per armi leggere, munizioni da demolizione per l’eliminazione degli ostacoli, attrezzature per proteggere le infrastrutture critiche e pezzi di ricambio, attrezzature ausiliarie, servizi, formazione e trasporti. Se il Congresso Usa non approverà la nuova richiesta di finanziamenti della Casa Bianca, questo pacchetto destinato a Kiev potrà essere uno degli ultimi. «Aiutare l’Ucraina a difendersi dall’aggressione russa e a garantirgli un futuro contribuisce alla stabilità globale e per questo abbiamo bisogno che il Congresso agisca immediatamente», sottolinea il Dipartimento Usa, rilanciando anche le parole del presidente Usa Joe Biden: «Il Congresso deve approvare i nuovi fondi all’Ucraina entro Natale, è incredibile che siamo arrivati a questo punto». In queste ore il presidente Usa Joe Biden, dopo aver preso parte al G7, ha rivolto un appello al Congresso per approvare i fondi a Kiev. Stati Uniti e alleati non possono infatti permettere che il leader di Mosca conquisti l’Ucraina poiché, secondo Biden, «Putin non si fermerà lì. Non facciamogli questo regalo», ha detto dalla Casa Bianca. «Non possiamo permettere che Putin vinca» la guerra in Ucraina, ha continuato. «Se noi non sosteniamo l’Ucraina chi lo farà? Cosa succederà alla Nato?», si chiede il leader Usa. E poi ancora: «Se noi molliamo come faranno i nostri amici europei ad aiutare Kiev?». Tutto il mondo, conclude Biden, «ci guarda».
«Proteggere il nostro clima è la più grande prova di leadership a livello mondiale. Il destino dell’umanità è in bilico». Sono state le parole del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres a inaugurare la Cop28, la conferenza annuale sui cambiamenti climatici che quest’anno si svolge a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. Come da aspettative, la prima metà del summit è stata segnata da tante polemiche e pochi passi in avanti. Ma la strada da qui al 12 dicembre, ultimo giorno della conferenza, è ancora lunga. Domani, 7 dicembre, ci sarà un giorno di riposo tra le stanze e i corridoi di Expo City Dubai. Poi ci sarà l’ultimo sprint, che culminerà con le trattative sull’accordo finale del 10, 11 e 12 dicembre. Ecco una breve guida di ciò che è successo finora e cosa ci si può aspettare nei prossimi giorni.
L’accordo (in tempi record) sul Loss&Damage
Quasi a voler spazzare via ogni polemica, il primissimo giorno della Cop28 si è chiuso con un accordo che si attendeva da decenni: la decisione di rendere operativo il fondo Loss&Damage, concepito per aiutare i Paesi più poveri – e meno responsabili per il riscaldamento globale – a far fronte alle conseguenze dei cambiamenti climatici. L’Italia, ha annunciato la premier Giorgia Meloni nel suo discorso a Dubai, contribuirà con 100 milioni di dollari. L’accordo sul Loss&Damage prevede che il fondo sarà gestito dalla Banca Mondiale e che i contributi dei Paesi donatori siano volontari e non obbligatori. Un risultato che è stato reso possibile con ogni probabilità da negoziati svolti dietro le quinte per tutto l’ultimo anno.
Tra gli eventi clou dei primi giorni della Cop28 c’è anche l’accordo firmato da 20 Paesi, tra cui Francia e Stati Uniti, per «triplicare le capacità energetiche nucleari nel mondo entro il 2050» rispetto al 2020. L’obiettivo, ha spiegato l’inviato della Casa Bianca per il clima John Kerry, è «ridurre la dipendenza dal carbone e dal gas, la principale sfida di questo vertice». A marzo 2024 si terrà inoltre il primo vertice mondiale sul nucleare, organizzato insieme all’Agenzia internazionale per l’agenzia atomica. La prima edizione del summit si terrà in Belgio e ha già raccolto l’interesse, tra gli altri, anche dell’Italia. «Non escludo che l’Italia possa partecipare al vertice da osservatore», ha commentato il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto.
Al Jaber e il «ritorno alle caverne»
A far ripiombare la Cop28 nelle polemiche ci ha pensato ancora una volta il presidente della conferenza, nonché amministratore delegato del colosso petrolifero Adnoc, Sultan Al Jaber. «Non c’è alcuna base scientifica che indichi che è necessario rinunciare ai combustibili fossili per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi», ha detto il presidente della Cop28 intervenendo a un evento online di inizio novembre ripescato dal Guardian. Nessun addio a petrolio, gas e carbone, dunque, «a meno di non voler riportare il mondo nelle caverne». Parole giudicate al limite del negazionismo, che hanno dato il via a un coro unanime di condanne. L’ex vicepresidente americano Al Gore, da sempre in prima linea sui temi climatici, è arrivato a chiedere le dimissioni di Al Jaber. Il passo indietro alla fine non c’è stato, ma il presidente-petroliere ha organizzato in fretta e furia una conferenza stampa per provare a smorzare le polemiche: «La scienza è al centro del mio progresso nella carriera. Rispetto numeri e dati. C’è confusione e cattive interpretazioni».
Il patto per le rinnovabili
Tra i successi riscossi nei primi giorni del summit di Dubai c’è anche l’impegno sottoscritto da 116 Paesi per triplicare la capacità di energia rinnovabile nel mondo da qui al 2030. A rendere particolarmente significativa l’intesa contribuisce il fatto che tra i Paesi firmatari figurano anche Cina e Stati Uniti, i due Paesi che incidono di più sulle emissioni totali di gas serra. Tra gli attori internazionali che più hanno spinto per l’accordo c’è anche l’Unione europea, con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen che ha commentato: «È una buona notizia. Abbiamo bisogno di un’energia che sia conveniente e accessibile a tutti».
La lobby del fossile cresce sempre di più
Tra i ricordi più tristi che lascerà la Cop28 c’è invece il nuovo record di lobbisti legati ai produttori di combustibili fossili che si sono presentati alla conferenza dell’Onu. Alla Cop26 di Glasgow erano 503, alla Cop27 di Sharm el-Sheikh erano 626, quest’anno sono 2.456. Un numero record, calcolato dalla ong Kick Big Polluters Out, che non fa che alimentare le polemiche sui fitti legami tra la presidenza del summit di Dubai – e quindi il governo degli Emirati Arabi Uniti – e il settore dell’Oil&Gas. Il numero di accessi ai colloqui da parte dei lobbisti dei combustibili fossili è aumentato di circa quattro volte nel giro di un solo anno, mentre da diverse associazioni cresce la richiesta di espellere una volta per tutte i rappresentanti dei grandi inquinatori dai colloqui.
Arrivati a circa metà del summit, le posizioni dei diversi Paesi sull’accordo finale della Cop28 restano ancora molto distanti fra loro. Il terreno più spinoso, come da previsioni, è quello dell’addio ai combustibili fossili. L’Unione Europea fa parte di quel gruppo di Stati che chiedono il phase-out, ovvero l’eliminazione graduale delle fonti fossili dal mix energetico globale. Oggi il commissario Ue per il clima Wopke Hoekstra ha messo in chiaro che «la Cop28 di Dubai deve dare il via all’abbandono dei combustibili fossili» e tutti i Paesi Ue «vogliono che questo sia parte del risultato finale». Dall’altra parte del tavolo resta però un folto gruppo di Paesi che non ha alcuna intenzione di rinunciare alle fonti fossili, a partire dagli stessi Emirati Arabi, che non solo sono il settimo produttore di petrolio al mondo ma prevedono anche di incrementare la produzione nel prossimo decennio. L’ultima bozza dell’accordo finale prevede tre opzioni su questo punto: una eliminazione graduale «ordinata e giusta», «un’accelerazione degli sforzi verso l’eliminazione graduale dei combustibili fossili non abbattuti» e una terza opzione che non cita affatto l’eliminazione graduale dei combustibili fossili.
Il ricatto di Putin sulla Cop29
Come se non bastasse, c’è un altro nodo da sciogliere tra i corridoi di Dubai: la sede della prossima conferenza Onu sul clima. In genere, la sede viene scelta con almeno un paio d’anni di anticipo. E infatti è già stata stabilita la sede per il 2025: la Cop30 si svolgerà a Belém, in Brasile. In base al meccanismo della rotazione tra aree, toccherebbe a un Paese dell’Europa orientale ospitare il summit del 2024. La Bulgaria è stata la prima a candidarsi, ma la Russia di Vladimir Putin – che in quanto Paese dell’Europa dell’Est gode del diritto di veto – si è opposta. La ragione ufficiale fornita dal Cremlino è che «nessun Paese Ue sarebbe imparziale con la Russia». Secondo il ministro dell’Ambiente bulgaro, invece, il veto di Putin non sarebbe altro che «una rappresaglia per le posizioni sulla guerra in Ucraina». Se la situazione non si dovesse sbloccare entro la fine della Cop28, l’Onu si troverebbe di fronte a uno scenario inedito. Tra le opzioni sul tavolo c’è la possibilità di svolgere la conferenza del 2024 a Bonn, in Germania, dove ha sede l’Agenzia delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici (Unfccc). In questo caso, a cambiare sarebbe solo la sede logistica, mentre a presiedere la Cop29 sarebbe ancora una volta il contestatissimo Sultan Al Jaber.
Foto di copertina: EPA/Martin Divisek | Uno dei corridoi di Expo City Dubai, la location che ospita la Cop28 negli Emirati Arabi Uniti (6 dicembre 2023)