Costituzionalisti ed ex parlamentari (anche di centrodestra) compatti contro il premierato proposto da Meloni

Nell’Aula dei gruppi di Montecitorio è intervenuto anche l’esponente di maggioranza Mulè. Che, però, non ha risposto a nessun attacco

«Costituzione, Parlamento e democrazia». È il titolo dell’incontro organizzato dall’Associazione degli ex parlamentari della Repubblica. Ma sono anche le parole chiave che si ripetono negli interventi, unanimi nel bocciare la proposta di riforma costituzionale del governo Meloni. E il biasimo, oggi 12 dicembre, non ha colore politico. Forse la reprimenda più dura è quella di Giuseppe Gargani, sei volte deputato e tre volte europarlamentare. Attualmente, il politico con un lungo corso in Forza Italia, presiede l’Associazione. E afferma: «Dobbiamo reagire alla crisi progressiva del Parlamento, che mette in pericolo la consistenza della democrazia. Oggi il governo controlla il Parlamento, esercitando un potere patologico». Come esempio, Gargani ricorda che dal 2001 al 2021 i decreti approvati sono stati 553, di cui 517 con la fiducia. Da ottobre 2022 a oggi, poi, «sono stati presentati ben 59 decreti legge. Le richieste di fiducia hanno avuto un aumento progressivo da parte del governo per blindare i propri provvedimenti e assicurandoli dall’intervento parlamentare». Per Gargani, negli ultimi anni, «il portato della democrazia costituzionale, che è la rappresentanza politica, si è sgretolato. I cittadini non concorrono più con metodi democratici a determinare la politica nazionale ed è offuscata la libertà del Parlamento di indirizzare la politica del Paese».


L’ex deputato rileva come il governo abusi di uno squilibrio legislativo al quale, per porre rimedio, «basterebbe iniziare dalle modifiche dei regolamenti parlamentari. E cambiare la legge elettorale, che ha caratteri truffaldini». Gargani ammonisce dalla modifica del sistema costituzionale in un momento di crisi e di tensioni sociali come quello attuale. E aggiunge: «Le leggi oggi risultano settoriali, corporative, si potrebbe dire “ad personam” e per questo hanno un valore provvisorio. Non si riesce ad avere un quadro di prospettive». Per Gargani, «la consistenza della Costituzione è concentrata sul fatto che il popolo è sovrano, ma non con potere assoluto. La società è mediata dai partiti e quindi dal Parlamento. Si deve concentrare il potere, di pesi e contrappesi, nei corpi intermedi, non ai vertici dello Stato né alla base». Premessa per l’attacco che Gargani riserva ai leader attuali del Paese: «Il populismo moderno, simbiotico con l’individualismo, fa il deserto in mezzo per far crescere la base, il popolo sovrano, e il capo carismatico». E approfondisce il tema ricordando che la Costituzione prevede che il popolo abbia una sovranità limitata. Perciò, «avrebbe più senso eleggere il presidente della Repubblica, che ha contrappesi, e non un presidente del Consiglio, il cui rapporto organico con il Parlamento rende molto più difficile la creazione di contrappesi».


Toni forti anche quando dice che la proposta del governo Meloni va «contro la logica giuridica e costituzionale», nel passaggio in cui si parla di un secondo premier da nominare qualora cada il primo, eletto direttamente dal popolo: «Una previsione molto fumosa e irrealistica sul piano politico». Altra critica riguarda il premio di maggioranza al 55%: «La Corte costituzionale ha già sanzionato in passato leggi che prevedevano premi di maggioranza cervellotici. Prevederli in Costituzione senza indicare una soglia di sbarramento è davvero pericoloso. Così come indicare nella stessa Costituzione il sistema elettorale maggioritario è in netto contrasto con un criterio complessivo proporzionale che ispira lo spirito della Carta costituzionale». Una modifica che dispiacerebbe, afferma Gargani, ai padri costituenti. E dice: «Ho sempre espresso perplessità sull’iniziativa del governo in materia costituzionali. Le questioni che attengono alle leggi delle legge hanno bisogno di un largo consenso: dovrebbe essere il Parlamento a fare proposte, non il governo. Il quale, con gli attuali sistemi elettorali, rappresenta una percentuale minima dei cittadini aventi diritto di voto. Una proposta di questo esecutivo non può che essere di parte e divide tanto il Parlamento quanto il Paese». L’iniziativa di Giorgia Meloni, per Gargani, «è un’anomalia come nel 2016».

In conclusione, «questa riforma del premierato priva il presidente della Repubblica di prerogative importanti» e, sentenzia Gargani, «la domanda di fondo è se la proposta di riforma potenzia o deprime i ruoli del Parlamento e del presidente della Repubblica. E la risposta, amici miei, non può arrivare dal governo, ma dal Parlamento e dalla scuola giuridica italiana». Un intervento che l’autore stesso definisce in difesa del Parlamento. Dopo di lui, segue il costituzionalista Enzo Cheli, secondo cui bisognerebbe puntare, più che altro a un ammodernamento della forma di governo parlamentare di cui già disponiamo. «La critica di fondo che va rivolta a questo disegno è che attraverso la contestuale elezione del Parlamento e del presidente del Consiglio si viene a instaurare una forma di dipendenza del Parlamento rispetto al governo e, in particolare, rispetto ai vertici del governo. Un modello del tutto inedito che rischia non di aumentare ma di ridurre la stabilità di governi, ove si pensi a quello che sarà lo scompenso tra un potere formale di vertice che si rafforza con un artificio elettorale, e la rappresentanza sostanziale della forza governativa».

Inoltre, biasima il giurista «c’è un’evidente riduzione dei poteri del capo dello Stato che da liberi diventano vincolati». E in chiusura, anche Cheli ricorda che il governo non osò intromettersi nei lavori della Costituente, proprio perché le Carte nascono per unire e non per dividere. Dopo di lui, interviene nell’Aula dei gruppi di Montecitorio il presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli. «L’elezione diretta del presidente del Consiglio ha degli obiettivi che possono essere condivisibili: la stabilità dei governi, il rafforzamento dell’azione dei governi, il limite ai cambi di casacca. Ma c’è da chiedersi se lo strumento proposto è quello pienamente idoneo e se ve ne siano altri meno intrusivi nei confronti della Costituzione e se i benefici e i costi si equivalgano. È vero, è un intervento chirurgico che tocca poche disposizioni della costituzione, non parla mai del presidente della Repubblica. Ma ne mantiene i poteri? Forse nominalisticamente, sostanzialmente li svuota, sia per la nomina del governo, sia per la possibilità di sciogliere il parlamento, sia per la nomina dei ministri, riducendo la sua posizione a un atto formale».

Mirabelli si domanda se questa riforma rafforzi il Parlamento o meno. «Il rapporto di fiducia esiste e viene mantenuto, ma con gli strumenti dell’elezione diretta congiunta del parlamento e del capo del governo e il meccanismo elettorale che viene annunciato», con il premio di maggioranza del 55%, «altera il rapporto tra Parlamento e governo». E spiega: «Non è più il Parlamento a esprimere il governo. Ma c’è un rischio di un circuito invertito nel quale è il governo a dare l’indirizzo politico al “suo” Parlamento». Mirabelli ricorda che nei Paesi dove esiste un vero premierato, «quello Doc è nel Regno Unito», il Parlamento è davvero sovrano e ha il potere di scalzare il premier nel giro di un mese. E conclude: «Il governo, anche se eletto, non potrà mai avere la forza del Parlamento. Il primo è espressione di una maggioranza, il secondo è espressione di un’unità più rappresentativa dei cittadini. Siamo sicuri che la stabilità non diventi immobilismo, con coalizioni coatte per non tornare la voto? È illusorio. È dannoso ingabbiare in schemi rigidi, istituzionali, quello che è il dinamismo della politica. Che certamente va corretto nelle sue espressioni negative, ma ci sono alternative a questo meccanismo di riforma costituzionale che possono perseguire gli stessi obiettivi». Ad esempio, «intervenendo sul sistema elettorale» e modificando i regolamenti parlamentari.

A questo punto c’è un passaggio di Giorgio Mulè. Il vicepresidente della Camera, tuttavia, decide di non rispondere a nessun attacco mosso da chi lo ha preceduto verso la riforma della maggioranza di cui è parte. Ringrazia l’Associazione degli ex parlamentari per il suo contributo e torna nel palazzo principale di Montecitorio. La giurista ed ex deputata Paola Balducci, dopo il forzista, esprime il suo stupore perché è il governo ad aver proposto questa riforma del sistema Stato, mentre «in questa prima fase si sarebbe dovuto astenere, delegando al Parlamento il dibattito e la verifica» di eventuali modifiche costituzionali. I primi applausi scroscianti arrivano durante l’intervento di Mariapia Garavaglia, già deputata e senatrice che ha ricoperto diversi incarichi di governo. «Fa chic sentire che un governo che dura di più produce di più. Invece, adesso abbiamo un governo che ha la maggioranza assoluta, eppure mette sempre la questione di fiducia: cos’è, non si fida della sua stessa maggioranza?».

Duro l’affondo alla leader di Fratelli d’Italia: «Quando Meloni, nel suo discorso di insediamento, ha citato Tina Anselmi e Enrico Mattei mi sono commossa e anche stupita. Sono stati due partigiani, Mattei è stato un grande capo partigiano e hanno combattuto affinché avessimo questa Costituzione che dà la sovranità al popolo, che con il voto libero può scegliere i suoi rappresentanti. Allora chi cita Tina Anselmi e Enrico Mattei sappia che la sovranità popolare è nel Parlamento. Se si taglia alla radice la Costituzione, non si lo faccia nel nome né di Anselmi né di Mattei. E neanche nel nostro nome sarà fatta questa sciancata riforma». Il giurista Francesco Saverio Marini, consigliere della presidente del Consiglio e che ha lavorato al progetto di legge in discussione, chiamato per intervenire sul palco, non si presenta. Dopo qualche momento di imbarazzo, allora, si procede con l’ultima fase dell’evento, quella che prevede una tavola rotonda tra gli ex presidenti di Camera e Senato Fausto Bertinotti, Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Carlo Scognamiglio. Inizia l’ex segretario di Rifondazione comunista: «Chiedere al Parlamento di non presentare emendamenti alla legge di Bilancio significa sancirne l’eutanasia politica, per me il Parlamento è sotto schiaffo, in Italia non c’è il primato del Parlamento ma del governo». E ancora: «Siamo di fronte a un democrazia autoritaria e secondo me con una forte tendenza oligarchica. O portiamo avanti questa tendenza, e la proposta del governo secondo me la accentua, oppure invertiamo il ciclo e riprogettiamo un diverso futuro».

Meno drastico Casini: «Possiamo fare tutto, non è un colpo di stato dire “facciamo una repubblica presidenziale”. Io non sono d’accordo ma ci sono tanti Paesi che lo hanno fatto. Il punto è che ci viene spiegato che non cambia nulla, che non vengono toccati i poteri del capo dello Stato. No, è una questione di lealtà! Non si può sostenere che non si cambia nulla, si cambia tutto a partire da funzione di terzietà del capo dello stato, perché una terzietà senza unghie è nulla, è da “taglio del nastro”. Il rischio è una distorsione sostanziale delle regole democratiche. Non mi scandalizzo se si vuol fare una repubblica presidenziale ma non si dica che con l’escamotage individuato le cose rimangono così. Assumetevi la responsabilità di rappresentare le cose per quel che sono. Si ritiene che sia intelligente procedere a colpi di maggioranza con un eventuale referendum che lacererà il tessuto del Paese? Se è un’idea reale io credo che bisogna invitare alla cautela. Meloni personalmente si sta muovendo con qualche ragionevolezza ed è a lei che bisogna rivolgersi», chiosa Casini.

Fini replica a chi ha parlato prima di lui, difendendo l’idea del governo di procedere con una riforma degli assetti istituzionali. Ma il suo discorso non è scevro di critiche: «Io non ho cambiato opinione, ero un convinto sostenitore di un modello semipresidenzialista francese e non ho cambiato idea, per me sarebbe garanzia di una democrazia governante e con un giusto equilibrio di poteri. Io non ho tessere in questo momento, ho una storia politica, credo di dire la verità dicendo che c’è una ragione se un governo di destra, un partito che aveva messo il presidenzialismo nel programma, abbia dovuto prendere atto che non c’erano le condizioni. Probabilmente perché all’interno della coalizione le altre forze hanno mostrato dissenso: la politica è realismo, Meloni ne ha preso atto e ha proposto un altro modello. Mi dispiace che, non avendo guardato a Parigi nel lodevole intento di rafforzare le prerogative del capo del governo, l’esecutivo non abbia guardato a Berlino». Del testo, «ci sono alcune cose che vanno cambiate, ma non mi riconosco nella critica aprioristica di chi dice che si va verso una forma di democrazia autoritaria. Si va verso una nuova Repubblica? Magari».

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