La “ribelle di Gaza” Asmaa Alghoul: «Hamas e Netanyahu vogliono una guerra senza fine» – L’intervista

La scrittrice originaria di Rafah: «Sono stata isolata per gran parte della mia vita. Ma allo stesso tempo penso che ci sono molti palestinesi che riescono a essere oggettivi, sui nostri partiti, sui nostri leader. Sanno chi sono i nemici»

Dallo scorso 7 ottobre, il mondo intero è stato tempestato dalle notizie provenienti dal Medio Oriente. I sanguinari attentati di Hamas e la reazione israeliana hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica le catastrofiche conseguenze di un conflitto lunghissimo. Ma è inimmaginabile comprendere la realtà che palpita sotto le bombe per chi non ha vissuto quei luoghi, toccando con mano la guerra e quel che resta dopo l’orrore. Asmaa Alghoul è una giornalista palestinese nata nel 1982 a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Ha scritto un libro, La ribelle di Gaza (pubblicato in Italia per Edizioni e/o), in cui insieme al giornalista Sélim Nassib, nato e cresciuto a Beirut in una famiglia ebraica di origine siriana, prova a raccontare cosa significa vivere una vita scandita da due costanti. Ovvero: la rivalità tra gli islamisti di Hamas e l’autorità palestinese, Al Fatah. E l’incombere minaccioso dei missili Israeliani. In questi giorni lo presenta al festival di letteratura Libri come, a Roma.


Chi è «la ribelle di Gaza»?


«Una persona che adesso sento di non essere più, perché ho deciso di partire per vivere altrove (Asmaa oggi vive a Tolosa, ndr). Ma è una persona che sono stata. Adesso, le ribelli di Gaza sono le persone, soprattutto le donne, che stanno provando a resistere, a sopravvivere. Così come, a mio tempo, ho fatto io».

Nel tuo libro racconti di una quotidianità che è stata molto dolorosa, di una vita vissuta in gabbia. Dove si trova la forza per continuare a lottare, in queste condizioni?

«Io stessa continuo a pormi questa domanda. Non so dove ho trovato la forza. Penso che di fronte a un’oppressione ci sono due reazioni possibili: o ti lasci schiacciare, o ti arrabbi e reagisci. E io ho scelto la seconda opzione. Perché, semplicemente, non potevo lasciare che mi trasformassero in una schiava. Devo però anche aggiungere che nonostante io abbia superato momenti molto duri, non sono paragonabili a quello che sta succedendo adesso, in questi mesi».

Sei stata critica nei confronti di Israele, di Hamas, e di Al Fatah. Hai pagato questa tua indipendenza mentale con la solitudine?

Asmaa: «Sono stata isolata per gran parte della mia vita. Ma allo stesso tempo penso che ci sono molti palestinesi che riescono a essere oggettivi, sui nostri partiti, sui nostri leader. Sanno chi sono i nemici. E con questa guerra sono aumentate le persone che capiscono come le vittime e il sangue stanno venendo sfruttati».

Sélim: «Quando i leader di Hamas hanno scelto di fare l’ultima offensiva sapevano che la reazione di Israele sarebbe stata terribile, ma hanno attaccato comunque. Sapendo che poveri innocenti sarebbero stati bombardati. Sembra che sia Hamas, sia Netanyahu vogliano una guerra senza fine. E le persone che vivono da ambo le parti del confine sono le vere vittime».

Asmaa, racconti di una vita nel segno dell’indipendenza e della libertà, e allo stesso tempo sei una musulmana osservante. Sembra una contraddizione per chi parla di presunta incompatibilità tra islamismo e emancipazione femminile. Come rispondi?

«Che non è assolutamente vero. Penso che ci sia molta disinformazione sull’Islam. Ognuno può trovare il suo approccio alla religione: ci sono io, per esempio, che sono molto diversa dai fondamentalisti. Molte persone credono ingenuamente di conoscere l’Islam, hanno la presunzione di sapere cosa sia meglio degli stessi musulmani. Io, per esempio, rifiuto il conservatorismo nei confronti delle donne, o l’approccio nei confronti di molte altre questioni. Loro hanno il loro Islam, io ho il mio. Mio padre è un fervente religioso, ma mi ha cresciuto insegnandomi che si può essere credenti e liberi allo stesso tempo. Mi ha dato la possibilità di scrivere, di viaggiare. Lui invece è rimasto a Gaza, vive ancora lì e non vuole lasciare quella terra. Lì c’è mia nonna, sua madre, che adesso ha più di 90 anni. Ha promesso di prendersi cura di lei, non la vuole abbandonare. Ho provato a dirgli che anch’io vorrei prendermi cura di lui allo stesso modo, ma non sente ragioni. Ha detto che me lo permetterà, ma quando la guerra sarà finita».

Asmaa, nella tua vita hai hai avuto modo di conoscere da vicino Hamas, in diverse occasioni, persino in famiglia (come nel caso di tuo zio, militante attivo del movimento). Cos’ha rappresentato per te il 7 ottobre?

«All’inizio pensavamo che avessero attaccato semplicemente un checkpoint militare. Gaza è in guerra da decenni, quando abbiamo sentito che il nemico, che ha oppresso la tua famiglia da sempre, è stato a sua volta colpito, è inevitabile provare un moto di esultanza. Ma quando abbiamo capito quello che era realmente successo, è diventato orribile. Per me e molte altre persone è stato chiaro che sarebbe iniziato l’inferno. Ma la cosa che potrebbe sembrare incredibile è che nemmeno molti dei leader di Hamas sapevano quello che era realmente accaduto».

Siete entrambi giornalisti. Muovereste qualche critica a come si sta raccontando questa guerra in Occidente?

Asmaa: «Certo, è orribile. Almeno per quanto riguarda i media istituzionali, in base a quello che sto vedendo in Francia. Penso a una collega che è andata a Gaza e ha vissuto in un ospedale al Sud per due settimane. Era una testimone molto preziosa. Ma la maggior parte dei media francesi ha scelto di ignorarla».

Sélim: «Non c’è oggettività. Un altro problema è che quello che sta accadendo sembra spesso troppo orribile per crederci. Quindi spesso si prova a convincere il pubblico che i morti, o le torture, non sono veri. E poi c’è una grande de-umanizzazione delle vittime. Come se fossero fatti di plastica, meri numeri, pezzi da muovere freddamente in una scacchiera mondiale».

Asmaa nel libro confessi di essere stata «salvata dai libri». Sperate che questo libro possa aiutare qualcun altro a «salvarsi»?

Sélim: «Quando scrivi un libro non sai mai l’effetto che avrà. L’unica cosa che sai è che devi scriverlo, che non hai scelta. A volte, una semplice frase al momento giusto può cambiare una persona. Ma non puoi conoscere la frase, né il momento, né la persona. Questo libro mostra l’umanità che resta in condizioni così difficili. Posso solo sperare che tocchi il cuore o il cervello di chi lo leggerà».

Asmaa: «Dal canto mio, non so se il mio libro cambierà qualcuno. Ma so che ha cambiato me. Molte persone hanno provato a farmi sentire in colpa per il mio carattere o le scelte che ho fatto. Il libro mi ha permesso di validare i miei pensieri, i miei sentimenti, attraverso le parole. E di liberarmi dai limiti che mi hanno imposto per tutta la vita».

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