Trump manda in tilt i democratici Usa. Parla l’ex stratega di Harris: «È diventato il partito delle élite. Primarie evitate per paura della sinistra radicale»
La disfatta dei democratici alle elezioni americane non turba i leader del partito. Se il presidente Biden ha detto che «una sconfitta non significa che siamo sconfitti», la potentissima ex speaker della camera Nancy Pelosi, in un’intervista al New York Times, ha rigettato tutte le accuse, affermando che il partito non è affatto in crisi, e che continua a essere il punto di riferimento dei lavoratori d’America. Le poche voci auto-critiche che si fanno sentire in queste ore arrivano dall’area più radicale del partito, che dopo aver sostenuto a denti stretti prima Biden e poi Harris, oggi – a voto avvenuto – si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Lo fa per primo il senatore Bernie Sanders: «Non ci deve sorprendere che un partito che ha abbandonato la working class scopra che i lavoratori gli hanno voltato le spalle alle urne» – ha detto a proposito della crescita del consenso repubblicano in tutte le categorie sociali ed etniche. «Lo stesso vale per l’elettorato nero e latino – ha continuato il senatore indipendente ma affiliato ai dem -. Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole il cambiamento. E ha ragione».
Il sito Axios ha pubblicato un sondaggio post voto commissionato dai democratici secondo cui negli Stati in bilico le persone non hanno votato Harris perché credono che si sia concentrata troppo su «temi culturali, come le questioni legate ai diritti transgender piuttosto sulle questioni che stanno davvero a cuore alla classe media». Una percezione costruita a tavolino dai repubblicani che hanno speso – ricorda il sito – centinaia di milioni di dollari in spot sulla presunta priorità di Harris verso i diritti trans e Lgbtq+.
November 8, 2024
Non è però un’invenzione repubblicana che la vicepresidente abbia puntato buona parte della sua campagna sullo spauracchio di una seconda amministrazione Trump. Guardando come si stanno muovendo i governatori democratici, sembra che il pericolo Trump continui a essere l’argomento post elettorale preferito. Dalla governatrice dello Stato di New York Kathy Hochul ai leader statali dell’Illinois e del Michigan, più che riflessioni sulla debacle, gli esponenti di spicco del partito sembrano concentrati su come proteggere i loro Stati dalle future azioni politiche di Trump. Poche ore dopo l’annuncio della vittoria, il governatore della California Gavin Newsom ha convocato una riunione straordinaria di emergenza per capire come mettere in atto la resistenza contro Trump. Una mossa che molti vedono come un segnale della sua futura corsa alla Casa Bianca. Brian Brokaw, che di Newsom è consigliere politico, nega a Open le speculazioni sulle volontà politiche del governatore: «I media amano proiettarsi sempre quattro anni avanti», dice. Campaign manager di Kamala Harris nella corsa come procuratrice generale in California e per l’elezione in Senato, lo raggiungiamo via Zoom a Sacramento per analizzare la disfatta del partito.
Cosa ha sbagliato il partito democratico?
«Penso che l’errore parta da lontano. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento lento ma costante in cui l’abbiamo visto diventare il partito dell’élite istruita e delle realtà costiere. Non c’è stato neanche un tentativo di capire l’attrattiva che Donald Trump esercitava su persone che hanno vite e obiettivi diversi dai loro. E questo è stato fatale».
Piuttosto Harris, come Clinton otto anni prima, ha dipinto Trump come una sciagura, definendolo – tra le altre cose – “un tipo strano” e “un fascista”.
«Nel mio piccolo ho provato a spiegare che chi sostiene Trump non può essere visto come un nemico dello Stato o come un sostenitore del fascismo. Bisognava piuttosto sforzarsi di comprenderne l’attrattiva. Premesso che tutto ciò che Trump rappresenta è lontanissimo da ciò in cui credo io, capisco perché per alcuni non lo sia. Ora dobbiamo fare un passo indietro e dirci: “Ehi, forse ci siamo concentrati non necessariamente sulle questioni che interessano alla gente ma su quelle che pensiamo debbano interessare alla gente. E per di più non ne abbiamo parlato in un modo che avesse senso, o con il linguaggio che usano le persone reali».
Ezra Klein ha scritto sul New York Times che i buoni risultati delle elezioni di midterm del 2022 hanno convinto non solo Biden a ricandidarsi, ma anche i i democratici di essere sulla strada giusta.
«Penso che un momento critico per il nostro rapporto con la classe operaia sia stato proprio il 2016. Non è stato solo l’anno in cui è nato Donald Trump, ma anche l’anno che ha portato Sanders molto vicino a diventare il candidato del partito democratico. Ora, non fraintendetemi, non ho sostenuto Bernie Sanders e non condivido la sua visione politica. Ma so per certo che il suo appello ha causato una frattura, o forse ha amplificato una frattura all’interno del partito che già esisteva. Da allora dobbiamo ancora capire chi siamo. Siamo il partito che, come dire, sta cercando di non fare paura al tradizionale establishment repubblicano di Wall Street oppure siamo quelli che cercano di attrarre i lavoratori e i sindacati? Se si cerca di giocare con tutte le parti in causa, si finisce per non avere una vera e propria casa da nessuna parte».
Che risposta si è dato?
«Non so quale sia la risposta. So solo che siamo stati ciechi, forse intenzionalmente ciechi, di fronte alla forza del messaggio di Trump e non abbiamo avuto la capacità di comunicare il nostro messaggio in modo efficace. E poi, naturalmente, ci sono stati tutti i problemi strutturali di una campagna di soli tre mesi e di una candidata che non era abbastanza conosciuta dagli elettori».
Non crede che sia riduttivo pensare che Harris abbia perso perché ha avuto pochi mesi per comunicare il suo messaggio? Non pensa piuttosto che il problema sia stato il messaggio o la sua assenza?
«Non sto dicendo che ha perso per lo sprint di tre mesi o per problemi strutturali. Dico solo che, insieme agli altri fattori di cui abbiamo parlato, questo ha reso le cose ancora più difficili. Harris ha detto di essere una sfavorita fin dal primo momento, e credo che la gente abbia pensato che si trattasse di un atteggiamento posticcio. Forse non ci credeva nemmeno lei…Io credo molto nel libero mercato delle idee e dei candidati, che viene automaticamente tradito quando la leadership del partito, qualunque cosa significhi, cerca di truccare certi risultati. Quando accade è facile allontanarsi da quello che vogliono gli elettori».
Uno degli argomenti su cui molti dem oggi sono d’accordo è che Joe Biden non doveva ricandidarsi.
«Se si guarda al 2016, si può dire che l’ago della bilancia si è inclinato a favore di Hillary Clinton e ha sostanzialmente tenuto fuori Joe Biden. Nel 2020 Biden ha vinto anche se aveva già una certa età, perché in quel momento era il punto di riferimento dell’elettorato: in una affollata competizione alle primarie il libero mercato ha deciso che volevamo un candidato sicuro, protetto, noioso, stabile. Dopo di che, io credo che lui abbia conservato il potere troppo a lungo, e quando l’ha finalmente mollato non c’è stato il tempo per un processo di primarie democratiche con la “d” minuscola. Probabilmente ne stiamo pagando le conseguenze».
Solo pochi mesi fa era un discorso tabù. Perché si sono evitate le primarie?
«C’è il timore che le primarie facciano correre i candidati solo verso sinistra. In alcuni casi è vero,
e penso che anche Kamala abbia pagato per le posizioni che ha assunto non quest’anno, ma nel 2019. Eppure non è necessario correre solo a sinistra, ci sono altri modi per diventare candidato presidenziale competitivo. Joe Biden, ad esempio, non si è certo candidato a sinistra nel 2020. Mi sta bene che le persone dell’area radicale condividano i loro punti di vista. Io stesso, da centrista, mi sono alleato con quella parte del partito. Tutti abbiamo il dovere di offrire le nostre idee ma una non deve andare a scapito delle altre. Occorre costruire un partito piglia-tutto: solo questo permette di avere idee divergenti e di sviluppare davvero il talento. Abbiamo tanti talenti, molti di questi erano alla Convention democratica di Chicago: Gavin Newsom, J.B. Pritzker, Wes Moore, Gretchen Whitmer… Non bisogna averne paura».