Gaza, parla Mika Almog: «Netanyahu regna sull’odio. Nel nome di mio nonno Shimon Peres, è il momento di rilanciare la pace»


«Questo governo non ci rappresenta: la vasta maggioranza degli israeliani vuole la vita e la pace, e costruire un futuro diverso. La gente in Italia e nel resto del mondo deve saperlo». È un fiume in piena, come solo gli israeliani – di destra e di sinistra – sanno essere, Mika Almog. Giornalista e produttrice tv, ha costruito la sua vita privata e professionale attorno all’attivismo per la pace tra israeliani e palestinesi. Anche per ragioni biografiche, per non dire genetiche. Suo nonno materno era Shimon Peres, il leggendario leader laburista che insieme a Itzhak Rabin architettò negli anni ’90 gli Accordi di Oslo – il piano cha valse loro e Yasser Arafat il Premio Nobel per la Pace – per poi prendere il testimone del premier assassinato da un estremista ebreo nel 1995, fino a diventare Presidente di Israele. Sono passati 30 anni, sembra un’era geologica. Ma dietro il volto “ufficiale” dello Stato di oggi – il duro Netanyahu, gli incendiari Smotrich e Ben-Gvir – resiste un’altra Israele, quella che si riversa per le strade del Paese e assedia il Parlamento da un anno e mezzo per chiedere la liberazione degli ostaggi, e quella delle decine di organizzazioni che si battono per la pace e la riconciliazione. Almog è tra quelli che non intendono darsi per vinti a un destino di odio e guerra, nonostante il trauma del 7 ottobre. Per questo è tra le animatrici del People’s Peace Summit che giovedì 8 e venerdì 9 maggio riunirà a Gerusalemme decine di quelle ong, con l’obiettivo di unire le forze e indicare a Israele e al Medio Oriente un’altra via. Possibile? Sì, assicura al telefono con Open in una delle ultime pause prima dell’apertura dei lavori.

L’esasperazione di Israele e la via d’uscita possibile
Parlare di pace e riconciliazione nella settimana in cui il governo guidato da Benjamin Netanyahu ha approvato i piani per intensificare ulteriormente la guerra a Gaza, aprendo la strada alla ri-occupazione della Striscia e allo sfollamento coatto della popolazione civile, pare un’utopia, ingenua o folle a seconda del giudizio. Gli organizzatori del summit conoscono a menadito l’obiezione, e sono pronti a capovolgere la prospettiva: proprio alla luce dell’ulteriore azzardo del governo Netanyahu questo è il momento di entrare in azione a gamba tesa, e proporre all’intero Paese un’altra strada. It’s Time, è lo slogan che anima non a caso l’iniziativa. «La verità è che gli israeliani non ne possono più di questa guerra», spiega Almog. È quello che sembrano indicare in modo piuttosto chiaro i sondaggi: a volere un accordo che porti a casa gli ultimi ostaggi e metta fine alla guerra, piuttosto che allargarla ulteriormente, è il 56% degli israeliani secondo Kan 11, il 69% secondo Canale 12. «Il punto è che la maggior parte di loro cova rabbia, dolore, perdita di ogni speranza nel chiuso della propria casa, perché non vede altra via d’uscita. Ecco dove sta il nostro ruolo». Oltre a tentare di unire il fronte diviso e frammentato delle organizzazioni della società civile israeliana, spiega la produttrice tv, l’obiettivo chiave è infatti quello di «fornire una piattaforma in cui i cittadini esasperati possano trovare spazio e voce». E capire che altre strade rispetto a quella attuale esistono. «Nell’immediato serve mettere fornire alla guerra e riportare a casa gli ostaggi, per il futuro serve ritrovare l’immaginazione politica che ci permetta di progettare un futuro diverso».
La dottrina dell’odio e la lezione di Peres
Non è facile, ma non è neppure impossibile, insiste Almog, che la lezione della generazione dei «giganti» Rabin e Peres l’ha appresa fin da piccola, e se la porta dentro ora che ha 50 anni. «L’unica cosa di cui avere paura è la paura stessa. Il futuro appartiene a coloro che osano», dice lo stesso Peres a un giovane connazionale impaurito (da un lancio col paracadute) in un video che 11 anni fece il giro del mondo: stava per lasciare la presidenza di Israele, e all’alba dei 91 anni ironizzava su se stesso interpretando una sua paradossale ricerca di un nuovo lavoro, dispensando intanto piccole grandi lezioni. Quel video lo aveva diretto proprio la nipote preferita Mika. «Sono cresciuta in un Paese che era diviso sì, c’era chi era a favore degli Accordi di Oslo e chi contro, si litigava, ma si sapeva che la pace era l’obiettivo. Oggi non è più così, l’idea di pace è stata brutalmente rimossa: i miei figli sono cresciuti in un altro Paese». Come se quel saluto ancestrale che gli israeliani, come gli ebrei di tutto il mondo, si scambiano ogni giorno si fosse svuotato di ogni significato reale: Shalom. Se è potuto succedere, argomenta Almog dando voce a quei 6mila cittadini attesi venerdì al convention center di Gerusalemme, è per via di «decenni di indottrinamento» voluti dalla destra guidata (anche) da Benjamin Netanyahu. «Cominciò subito dopo l’assassinio di Rabin, sfruttando quel trauma per sobillare paura e intimidazione». L’esercizio ha avuto successo: Netanyahu arrivò al potere per la prima volta già pochi mesi dopo (1996-99), poi ci è tornato quasi ininterrottamente nel 2009. Nel frattempo, giorno dopo giorno, il Paese si è spostato sempre più a destra, mentre a Gaza arrivavano al potere e spadroneggiavano i terroristi islamisti di Hamas. E l’idea del dialogo, per non dire della pace, è diventata quasi «indicibile».
Trump-Netanyahu: l’intesa e le bucce di banana
«Oggi tanto gli israeliani quanto i palestinesi sono ostaggio di governanti estremisti e corrotti», scolpisce Almog. Che Hamas debba essere sradicato, espulso, messo in ogni caso nelle condizioni di non poter mai più colpire lo Stato ebraico lo pensano tutti, dentro Israele. Eppure ciò non può più essere una giustificazione per continuare una guerra a oltranza insostenibile, incalza la nipote di Peres. «Senza nulla togliere alla complessità del conflitto, ormai è chiaro a tutti il motivo chiave che spinge Netanyahu ad alzare sempre di più la posta: è indagato in tre processi diversi per accuse di corruzione, e sa che se la guerra termina e il governo cade finirà in prigione». Eppure prima o poi la resa dei conti arriverà: l’attuale legislatura della Knesset finisce nell’autunno 2026, ma tra pressioni interne e internazionali Netanyahu potrebbe entrare in difficoltà anche prima. Con Donald Trump ufficialmente l’intesa – sigillata da due visite negli Usa nel giro di due mesi – pare idilliaca. Ma dietro sorrisi e pollicioni per i fotografi s’intravedono divisioni crescenti sulle scelte politico-militari: ancor prima di entrare in carica Trump ha di fatto imposto a Netanyahu il cessate il fuoco con Hamas, poi collassato a marzo, e non è chiaro come abbia preso l’annuncio di domenica notte di un’intensificazione della guerra a Gaza. Il mese scorso ha dato un amaro dispiacere al premier israeliano annunciando proprio al suo fianco l’apertura di negoziati quasi diretti con l’Iran; e ieri sera, alla viglia di un viaggio che la prossima settimana lo porterà in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati, ha annunciato un accordo «separato» di cessate il fuoco con gli Houthi.

Piani di guerra e piani di pace
Con tutta l’imprevedibilità di Trump, il campo degli attivisti israeliani non è disposto a lasciarsi più scappare una sola occasione. «Ci si accusa spesso di ingenuità perché “ancora” ragioniamo di pace con i palestinesi dopo l’eccidio del 7 ottobre e tutto quel che ne è seguito. La verità è che i veri ingenui sono proprio quelli che dopo quel dramma ancora rifiutano di vedere la realtà di fronte ai nostri occhi: gli israeliani non rinunceranno mai al loro Stato, i palestinesi non rinunceranno mai all’obiettivo di averne uno. Per questo non c’è alternativa a un accordo di pace», sostiene Almog, che ricorda – come molti altri analisti – un precedente storico su tutti: quello dell’accordo di pace siglato (dal premier di destra Begin) con l’Egitto nel 1979, appena sei anni dopo l’ultima guerra che aveva contrapposto i due Paesi. «Oggi il quadro è diverso da allora? Sì, ma neppure poi tanto», previene l’obiezione la nipote di Peres. E se la strada del dialogo dopo il 7 ottobre e un anno e mezzo di guerra e odio «totali» è maledettamente complessa, per passare dalle parole ai fatti venerdì sul palco del People’s Peace Summit saliranno una sequela di leader e attivisti pronti a presentare altrettanti piani di riconciliazione/pace. L’ex premier israeliano Ehud Olmert, che con l’ex ministro degli Esteri palestinese Nasser Al Kidwa ha presentato una sua roadmap già nei mesi scorsi. E poi ancora tre coppie di dirigenti dei movimenti Iniziativa di Ginevra, Land for All e Phoenix Project. Un brainstorming collettivo per provare a invertire la narrazione, quindi la rotta. Perché l’alternativa, chiarisce Almog, è che il progetto covato e oggi sdoganato dell’ultradestra israeliana – la deportazione di centinaia di migliaia di palestinesi – si realizzi davvero. «Smettiamola di esclamare “Incredibile!”, “Non può essere vero”. Quando si ha a che fare coi leader autoritari, bisogna credere a quello che dicono: è quello che intendono fare. Ce lo insegna la Storia».
Foto di copertina: Una protesta contro la guerra e per il rilascio degli ostaggi di fronte al Parlamento israeliano – Gerusalemme, 31 marzo 2024