La luce emessa dal corpo che si spegne dopo la morte. La scoperta su esseri umani, animali e piante: che cos’è l’Upe


Anche se invisibile a occhio nudo, ogni essere vivente – animale o vegetale – emette una tenue luce durante la sua esistenza. È ciò che suggerisce uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Physical Chemistry Letters (e riportato in Italia dal Corriere), secondo cui questo «bagliore della vita» si spegnerebbe pochi istanti dopo la morte. Scientificamente, questo fenomeno è noto come emissione fotonica ultradebole (Upe), causata dal movimento di energia all’interno delle cellule, in particolare dagli scambi tra i mitocondri e altre strutture intracellulari. Questo processo genera una minima quantità di fotoni – particelle di luce – che, seppur impercettibili, raccontano molto sullo stato di salute di un organismo.
Il ruolo dei mitocondri e del sangue
Secondo i ricercatori, il sangue ricco di ossigeno è un elemento chiave per la produzione di biofotoni. Dopo la morte, quando il sangue smette di scorrere, questa emissione si attenua rapidamente. Inoltre, la quantità di luce varia anche in base allo stress ossidativo dei tessuti: un dettaglio che potrebbe aprire la strada a nuove tecniche diagnostiche non invasive.
Una teoria discussa da più di un secolo
L’idea che il corpo umano – ma anche le piante o gli animali – emetta una luce invisibile non è del tutto nuova. Anzi, se ne discute da più di un secolo, ma solo oggi, grazie alle tecnologie più avanzate, è stato possibile distinguere l’Upe da altre forme di emissione luminosa o termica.
Gli studi su topi e piante
Il fisico Dan Oblak, dell’Università di Calgary (Canada), ha osservato quattro topi in condizioni controllate – al buio e alla stessa temperatura – monitorandone l’emissione luminosa prima e dopo la morte. I risultati parlano chiaro: subito dopo il decesso, il bagliore dei biofotoni si è drasticamente ridotto. Esperimenti simili sono stati condotti anche su foglie di Arabidopsis thaliana e Heptapleurum arboricola. In questo caso, i ricercatori hanno notato che le aree lesionate delle foglie, anche quando tratte con farmaci, brillavano di più rispetto alle parti sane. «Le zone danneggiate erano significativamente più luminose durante tutte le sedici ore di osservazione», spiegano gli autori dello studio.