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«La mia compagna e mio figlio di un anno e mezzo bloccati a Teheran»: la denuncia a Open di un medico di Parma

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Da venerdì 13 giugno le risposte del governo italiano sono sempre più rade. Ecco i messaggi vocali inviati da Ava al suo compagno con il racconto di queste ore di paura e di angoscia

«Mio figlio è il più piccolo italiano bloccato a Teheran in questo momento». Simone (nome di fantasia) è un medico di Parma che da venerdì 13 giugno sta tentando in tutti i modi di far rientrare dall’Iran la sua compagna Ava (anch’esso nome di fantasia) e il loro bambino di un anno e mezzo, dopo che Israele ha sferrato il proprio attacco su Teheran. Nonostante i molteplici tentativi di contattare la Farnesina, Simone è ancora in attesa di una risposta. «Non dormo la notte, faccio 10 mila telefonate al giorno e non ho ancora ottenuto una risposta ufficiale». Secondo gli ultimi aggiornamenti del ministero degli Esteri, gli italiani bloccati in Iran sarebbero circa 500.

Il ritorno a Teheran dopo 3 anni lontana dalla famiglia

Ava non tornava nel suo Paese di origine da 3 anni. Il suo desiderio era di far conoscere il piccolo ai propri genitori e trascorrere del tempo con la sua famiglia. «È partita il 5 giugno con un biglietto comprato a metà maggio», racconta il suo compagno. L’obiettivo, oltre a rivedere i suoi cari, era anche quello di recuperare dei documenti per poter procedere con la richiesta di cittadinanza italiana. «La mia compagna vive in Italia da 13 anni, ha studiato qui, si è laureata qui e nostro figlio è cittadino italiano». I due stanno insieme dal 2018, si sono conosciuti per caso a Milano, quando Simone era ancora un medico precario. «Lei mi ha seguito per tutta l’Italia, prima che ci stabilissimo a Parma». Diciotto mesi fa è nato il loro primo figlio. 

L’attacco di venerdì 13 giugno: «Non potevamo immaginarcelo»

«Era in corso un colloquio di pace con gli americani, non potevo pensare che succedesse quello che sta succedendo». Simone si riferisce agli incontri negoziali tra Usa e Iran sul nucleare in Oman, che hanno perso qualsiasi utilità dopo l’attacco di Israele su Teheran. Dopo i bombardamenti, venerdì mattina il 42enne ha ricevuto alcuni messaggi dalla compagna su whatsapp, come «stiamo tutti bene», «è morta un sacco di gente», «vorrei solo portare nostro figlio a casa». Dopo tre giorni di terrore in città, Ava con la sua famiglia è riuscita a spostarsi in una casa di campagna. «Vivono in 12 in 70 metri quadri, con un solo bagno». Alcuni di loro dormono in tenda. In un messaggio inviato da Ava a Simone si legge «Marika è quasi svenuta oggi perché non regge più, sente che la sua vita finirà». Marika è la sorella minore di Ava, ha poco più di vent’anni. «Venerdì mattina ho subito chiamato il numero della Farnesina, all’inizio si sono mostrati disponibili, ma poi per tre giorni non hanno più risposto». Solo oggi Simone è venuto a sapere che un gruppo di italiani che si trovano a Teheran sta organizzando un pulmino per raggiungere il confine con l’Azerbaigian. Un viaggio di 12 ore, senza alcuna garanzia e nessun membro del personale consolare a bordo. Per di più, con il rischio che una volta giunti al confine, Ava rimanga bloccata lì. Se anche la sua compagna e il figlio riuscissero a raggiungere il confine con l’Azerbaigian, infatti, il rischio è che possa entrare nel Paese solo il bambino, con un visto veloce concesso grazie al suo passaporto italiano. Mentre la madre, da cittadina iraniana, dovrebbe attendere diversi giorni prima di ottenere un lasciapassare. Eppure, per ora, questa sembra l’unica soluzione per tentare di mettersi in salvo: «Parto con loro, non mi interessa, non so chi sono gli altri, so che avranno tutti il visto, io sarò l’unica iraniana, ma è l’unica opzione, non posso non andare», si legge in uno degli ultimi messaggi inviati dalla donna.

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I primi messaggi di Eva a Simone la mattina di venerdì 13 giugno

L’inefficienza del sistema italiano

«Tutte le informazioni che siamo riusciti a ottenere fino a oggi, le abbiamo ricevute grazie alle nostre conoscenze, ad amici di amici, nulla di ufficiale», denuncia il medico. «La mia paura è che senza il visto, una volta arrivata al confine, la rapiscano o le facciano del male», la voce di Simone è un misto di rabbia e terrore. «Ieri quando ho chiamato per l’ennesima volta il numero della Farnesina, il povero centralista mi ha detto “guardi, se ha delle lamentele chiami l’Urp” (l’Ufficio relazioni con il pubblico, ndr). Siamo arrivati a questo, nessuno mi dà notizie di mio figlio e io devo chiamare l’Urp». Per ora, quindi, non si sa ancora quando dovrebbe partire il pulmino. «Non le hanno ancora dato un punto di raccolta, le hanno solo comunicato che dovrebbe partire in questi giorni». Le scorte di cibo, intanto, stanno finendo e la benzina è sempre più difficile da reperire. «Mio figlio piange perché non c’è più latte, lui è abituato a berlo alla sera e anche i pannolini stanno terminando. Tutto questo, prima ancora di mettersi in viaggio per il confine». 

La vita che resiste

Tra i messaggi vocali che Ava ha mandato a Simone in questi giorni, ce n’è uno in cui gli spiega preparare il pesto alla ligure. «Devi prendere le foglie di basilico, mettile nel mixer e aggiungi olio, sale e parmigiano, se non hai i pinoli, mettici un po’ di noci e uno spicchio di aglio, piccolino». Simone spiega che quello è stato uno dei suoi tentativi di distrarre Ava, che ama molto cucinare. Entrambi cercano di essere forti, lui per dare sostegno a lei e lei per non far spaventare suo figlio e non gravare emotivamente sulla propria famiglia. Ma non è sempre facile. Nella chat la coppia si è scambiata anche qualche fotografia. C’è la tenda arancione in cui dorme con il figlio perché in casa non c’è spazio per tutti, una foto del piccolo di spalle che gioca, un selfie di lei che sorride, con la faccia stanca e la foto di una tv accesa con sotto il messaggio: «Noi stiamo guardando un film che fa ridere, così ci tiriamo su». 

Foto di copertina: selfie di Ava, compagna di Simone, all’interno della tenda in cui dorme con il figlio nella campagna di Teheran

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