Gli Usa, il Mossad e il cambio di regime in Iran: «Si rischia un altro Vietnam»


«Hai 12 ore per scappare con tua moglie e i tuoi figli, oppure finisci nella nostra lista. Siamo più vicini delle tue vene del collo. Vuoi finire così?». La telefonata parte da un uomo del Mossad e raggiunge un generale iraniano, che risponde: «Cosa devo fare?». E l’altro: «Fai un video dove dici che non sostieni il regime e che non ti sacrificherai per lui». Il generale iraniano : «Bene, dove devo mandare questo video?». L’israeliano: «Su Telegram». L’audio pubblicato dal Washington Post risale al 13 giugno, a poche ore dall’attacco di Tel Aviv a Teheran. E fa parte di una campagna del Mossad verso alti esponenti dell’esercito e della sicurezza della Repubblica Islamica.
Le telefonate, le lettere, le minacce
Altri hanno ricevuto lettere sotto la porta di casa. La mossa fa parte della strategia per il regime change in Iran, l’obiettivo più ambizioso della campagna di Israele. E che fallirà se la tregua annunciata da Trump diventerà davvero operativa. Tra gli obiettivi dell’operazione Rising Lion ci sia anche la fine della Repubblica islamica. E il Mossad è in contatto con i militari: «Con queste azioni cercano di indebolirli, sfaldarli e instillare in loro l’idea che un colpo di Stato è possibile», è l’interpretazione di una fonte iraniana citata dal Corriere della Sera.
I Guardiani della Rivoluzione e l’esercito regolare
Oltre ai Guardiani della rivoluzione, in Iran esiste l’esercito regolare formato da 400 mila persone: «Sono meno ideologici e meno fedeli all’ayatollah rispetto ai pasdaran». Ecco perché a un certo punto hanno cominciato a circolare voci di un colpo di stato dell’élite contro gli ayatollah. «Posso immaginare che, con la guida di Stati Uniti e Israele, uno come il riformista Hassan Rouhani potrebbe essere aiutato a prendere il potere», dice ancora la fonte parlando dell’uomo che nel 2015 ha firmato il Jcpoa Act, l’accordo sul nucleare con Barack Obama.
«Oppure c’è l’opzione migliore: una rivolta di popolo supportata dalla combinazione dei punti precedenti: coinvolgimento e indebolimento dell’ala militare, partecipazione delle minoranze, possibilità per la gente di riprendersi le piazze». Una miscela di questi elementi costringerebbe il regime a fare un passo indietro. Ma, dice la fonte: «Bisogna avere pazienza: è ancora troppo presto», conclude la fonte.
Vietnam, Iraq, Afghanistan
Ma il filosofo di Princeton Michael Walzer mette in guardia: «L’obiettivo ora dovrebbe essere riportare l’Iran al negoziato, ma non si ottiene facendo discorsi da bullo». In un’intervista a Repubblica Walzer dice di essere preoccupato «che l’America venga percepita come uno strumento del premier Netanyahu e che Teheran decida di iniziare una lunga guerra». Agli Usa con Israele «servirebbe una linea più sofisticata, per fermare quanto sta facendo a Gaza, sostenendolo invece con l’Iran. La guerra nella Striscia è ingiusta, quella contro la Repubblica islamica è altro, ma a Washington oggi non c’è questa forza morale per distinguere».
Il cambio di regime
«Non credo che il cambio di regime dovrebbe essere l’obiettivo di questa campagna degli Stati Uniti o di Israele. L’effetto immediato del bombardamento di un paese è in genere quello di produrre risposte patriottiche e nazionaliste, ricompattando la popolazione col governo, anche se non lo condivide. Potrebbe esserci lo spazio per un cambio di regime se ci fosse prima una soluzione diplomatica, seguita poi da una rivolta contro questo governo motivata dall’insoddisfazione della popolazione per la situazione di crisi in cui ha spinto il paese, però non può essere l’obiettivo predeterminato di una potenza straniera».
«Noi abbiamo cercato di creare una sorta di nuovo regime a Saigon durante l’intervento in Vietnam e, nonostante quel fallimento, ci abbiamo poi riprovato in Afghanistan e in Iraq. Non è mai andata molto bene. Un conto è lanciare bombardamenti dal cielo, un altro è andare sul terreno per costruire nuove istituzioni. È più difficile di quanto non pensino a Washington, soprattutto quando hai davanti un esecutivo in possesso di un forte potere militare. È indispensabile che la spinta venga dalla popolazione locale, ma non si crea lanciando minacce da boss», conclude Walzer.