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15 giorni (e notti) in carcere per i futuri magistrati: la proposta di legge per cambiare la giustizia dall’interno

01 Luglio 2025 - 15:22 Alessandra Mancini
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L’obiettivo del disegno di legge Sciascia-Tortora, ora all'esame della Commissione giustizia alla Camera, è rendere i magistrati consapevoli delle vere condizioni dei luoghi in cui vengono inviati arrestati e condannati

Obbligo formativo per i futuri magistrati di passare 15 giorni (e notti) in carcere dopo aver vinto il concorso. È la proposta contenuta nel disegno di legge Sciascia-Tortora, ora all’esame della Commissione giustizia della Camera, che mira a rendere la giustizia «più umana e vicina al cittadino». Se n’è discusso lunedì 30 giugno all’interno di uno dei luoghi più simbolici del sistema penitenziario italiano: il carcere di San Vittore a Milano. Si tratta di un provvedimento che può raccogliere il consenso trasversale di tutte le forze parlamentari, con l’obiettivo di far comprendere ai magistrati le reali condizioni dei luoghi in cui vengono inviati arrestati e condannati, offrire un argine agli errori giudiziari e contribuire al miglioramento della drammatica situazione carceraria italiana: 63mila detenuti a fronte di 46.700 posti disponibili e 34 suicidi registrati da gennaio 2025 a oggi. Una situazione «drammatica e un’emergenza sociale su cui interrogarsi per porvi fine immediatamente», ha ammonito ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Dove nasce la proposta e chi sono i promotori?

La proposta è frutto dell’iniziativa congiunta di diverse realtà: l’associazione Amici di Leonardo Sciascia, presieduta dall’avvocata Simona Viola; l’associazione Italia Stato di Diritto, guidata dal legale Guido Camera, che ha curato la redazione del testo insieme a un gruppo di avvocati e docenti universitari; la Fondazione Enzo Tortora, presieduta da Francesca Scopelliti, già senatrice e compagna del giornalista; e la Società della Ragione. «La proposta “Sciascia-Tortora” muove dalla convinzione che il magistrato ha un ruolo fondamentale per garantire i diritti e le libertà delle persone. Per poterlo fare in modo aderente al dettato costituzionale, deve essere pienamente consapevole di quanto sia terribile l’esperienza carceraria che può infliggere con una sua sentenza o un suo provvedimento cautelare», ha spiegato Camera durante l’incontro, ricordando inoltre che il disegno di legge prevede fra le attività formative obbligatorie per i magistrati, il diritto penitenziario e la letteratura dedicata al ruolo della giustizia (Beccaria, Manzoni, Verri, Sciascia, le lettere di Tortora).

Camera ha poi sottolineato che lo stesso ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il 18 novembre 2011 a Palermo, durante il secondo “Leonardo Sciascia colloquium”, dichiarò: «Se fossi stato nominato ministro della Giustizia, mi sarebbe piaciuto rendere obbligatorio per i magistrati lo studio completo dell’opera di Leonardo Sciascia». All’incontro hanno partecipato anche importanti esponenti del mondo istituzionale, accademico e forense. Tra loro, i parlamentari e firmatari del disegno di legge Maria Elena Boschi, Benedetto Della Vedova, Debora Serracchiani e Giorgio Mulé; Federico Papa, presidente della Camera penale di Milano; Roberto Crepaldi, magistrato della sezione Gip-Gup del Tribunale di Milano; Francesca Biondi, docente dell’Università degli Studi di Milano.

Da Sciascia a Tortora

Un’idea che risale in realtà a Leonardo Sciascia, il quale sul Corriere della Sera del 7 agosto 1983 propose che i magistrati trascorressero almeno tre giorni all’interno delle carceri, a stretto contatto con i detenuti. «Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza», si leggeva sul quotidiano di Milano. Nemmeno due mesi prima era stato arrestato Enzo Tortora, inizio di un doloroso percorso fino alla piena assoluzione del 15 settembre 1986 in Corte d’Appello, poi confermata nel 1987 in Cassazione. Nell’articolo, Sciascia sottolineava anche come il caso Tortora non fosse un episodio isolato, ma l’anticipazione di una dinamica destinata a ripetersi nel tempo: il «ricercato clamore» utile ad aumentare la spettacolarizzazione delle operazioni giudiziarie. A suo avviso, il fatto che un errore così grave abbia potuto colpire «un uomo tanto popolare e stimato» dimostra che «può accadere a qualsiasi cittadino». Avvicinarsi alla sofferenza umana che accompagna la privazione della libertà personale e condividere, anche solo temporaneamente, la condizione delle persone detenute e le realtà del sistema carcerario, significa riconoscere che l’esercizio della funzione giudiziaria non può ridursi a un mero atto tecnico, ma richiede sempre una profonda comprensione dell’animo umano.

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