Ansia, solitudine, amore: così ChatGPT è diventato lo psicologo personale degli under 30 – L’inchiesta


All’inizio erano semplici curiosità, un’informazione, un consiglio di viaggio, una ricetta, il miglior modo per creare un curriculum. Poi, quasi senza accorgercene, all’intelligenza artificiale abbiamo cominciato a chiedere di più. «Perché mi sento sempre così in ansia?», «Come faccio a farmi amare?», «Perché il futuro mi fa così paura?». Le domande sono diventate intime, personali. E il destinatario, una macchina non certo pensata per ricoprire il ruolo di un terapeuta perfetto, ha continuato ad ascoltarci, senza giudizi né silenzi imbarazzati. Non è fantascienza ma la realtà quotidiana di migliaia di persone che oggi confidano a chatbot, come ChatGPT, il proprio mondo interiore.
Già una analisi pubblicata su Digital Medicine nel 2023 evidenziava come l’uso di chatbot generativi per il supporto emotivo, integrati in app mobili, riducesse in maniera statisticamente significativa i sintomi di depressione e angoscia. È un dato che conferma quanto sia forte il bisogno di strumenti digitali per la salute mentale, specialmente tra i giovani, laddove la terapia tradizionale resta spesso inaccessibile.
Questa tendenza, tuttavia, solleva anche interrogativi profondi: l’intelligenza artificiale può davvero capire ciò che proviamo? Come bilanciare l’accesso immediato con la qualità della relazione terapeutica? Quali meccanismi psicologici entrano in gioco quando ci affidiamo a un’entità non umana? Una ricerca pubblicata dall’American Journal-Constitution nel 2025 mostra che circa un terzo degli adulti statunitensi ha utilizzato un chatbot almeno una volta per ricevere consigli legati alla propria salute mentale, o semplicemente per sfogarsi. E anche se secondo la Pew Research Center il 79% degli americani non si sente ancora del tutto a proprio agio nel trattare tematiche così personali con un’intelligenza artificiale, il restante 20% rappresenta già una fetta rilevante della popolazione.
Nel contesto italiano, questi interrogativi assumono una rilevanza ancora più evidente. Secondo il più recente MINDex – Il Barometro del Benessere Mentale degli Italiani, realizzato dalla piattaforma di psicologia online Unobravo, anche nel nostro Paese la tecnologia viene vista come una risorsa emergente. Il 52% degli italiani tra i 18 e i 29 anni ritiene che l’IA possa migliorare l’assistenza psicologica e oltre il 60% della stessa fascia d’età dichiara di convivere con ansia, stress o disagio emotivo. Sempre più spesso, a offrire una risposta immediata a questi stati non è un terapeuta ma un algoritmo.
Perché ci apriamo a una macchina? Le radici psicologiche del fenomeno
La psicologia ci offre diverse chiavi di lettura per comprendere il fenomeno. L’intelligenza artificiale viene percepita innanzitutto come uno spazio privo di giudizio, una presenza neutra e sempre disponibile. In un’epoca in cui l’esposizione sociale è costante, sui social, sul lavoro, in famiglia, parlare tutte le volte che vogliamo con un’entità che non ha volto, né memoria emotiva può sembrare rassicurante.
«Parlare con un’intelligenza artificiale può sembrare, in alcuni casi, più “sicuro” per chi fatica a esporsi quando si trova di fronte a una persona in carne e ossa, soprattutto se ha vissuto esperienze di stigma o difficoltà a fidarsi», osserva Danila De Stefano, CEO di Unobravo. Questo vale in particolare per le nuove generazioni, cresciute con la tecnologia e abituate fin da giovanissime a interagire con assistenti vocali e chatbot per ogni aspetto della loro quotidianità, dalla scuola al tempo libero.
Ma c’è anche un altro elemento che rende questi strumenti così attrattivi: l’accessibilità totale. «Se sto utilizzando una IA generalista, come ChatGPT o Gemini, per motivi di studio o lavoro», spiega ancora De Stefano, «è un attimo aprire una nuova chat e scrivere qualcosa sulle difficoltà che ho con la mia fidanzata, per ricevere consiglio». In effetti, secondo l’indagine AI & Mental Health condotta dalla Stanford Internet Observatory nel 2024, l’uso di chatbot per supporto emotivo è spesso “incidentale”: il 37% degli utenti riferisce di aver iniziato per caso, da una conversazione generica poi divenuta personale.
C’è infine la questione economica. In un mondo dove il costo della psicoterapia può essere un ostacolo reale, le IA si presentano come un supporto low cost o addirittura gratuito. «Avere un supporto del genere, responsivo 24 ore su 24, a costo zero, è chiaramente molto attraente per tantissime persone», conferma De Stefano.
Ma questa apparente semplicità nasconde un rischio: quello di sostituire la relazione terapeutica autentica con un surrogato che, pur apparendo empatico, non è in grado di contenere davvero la sofferenza. E in situazioni di vulnerabilità, questa illusione può trasformarsi in un pericolo concreto.
I rischi dell’auto-terapia algoritmica
Confidarsi con un chatbot può sembrare una scelta rassicurante: non c’è attesa, non ci sono giudizi, non ci si sente mai soli. Ma cosa accade quando quel sollievo diventa abitudine e l’IA prende il posto di una relazione umana?
Secondo un’indagine condotta dalla Stanford University chatbot come ChatGPT offrono risposte problematiche o addirittura pericolose nel 20% dei casi, soprattutto quando si tratta di pensieri suicidari o convinzioni distorte. Invece di fornire un contenimento, l’algoritmo spesso “asseconda” l’utente, restituendo frasi che rischiano di rafforzare il malessere. «L’intelligenza artificiale manca di consapevolezza, empatia reale e sensibilità al contesto», ha spiegato la terapeuta Niloufar Esmaeilpour. «E questo la rende inadatta a gestire il dolore più profondo».
Il punto critico è proprio qui: l’IA può apparire empatica ma non lo è. Imita uno stile rassicurante ma non sente. Non può interrompere un meccanismo pericoloso né prendersi la responsabilità di intervenire.
De Stefano lo spiega così: «Il problema è che questi strumenti non sono stati creati per fare terapia o dare supporto emotivo serio. Una persona potrebbe usarli anche per ore, ininterrottamente, trovando sempre una risposta. Ma in terapia, il silenzio, l’attesa, l’elaborazione tra una seduta e l’altra sono parti fondamentali del processo. L’IA, invece, risponde subito, sempre, e questo può portare dipendenza, isolamento sociale, e una progressiva perdita della capacità di tollerare la frustrazione o l’assenza di stimolo».
I rischi sono tanto più alti quanto più è fragile la persona che cerca conforto. In casi estremi, come riporta The Guardian, alcuni utenti britannici hanno attribuito a Replika il merito di averli trattenuti da gesti estremi. Ma proprio questi episodi sottolineano quanto siano sottili i confini e quanto sia pericoloso scivolare nell’illusione che un algoritmo possa sostituire l’umano.
La stessa De Stefano invita a non demonizzare lo strumento ma a inquadrarlo nel giusto contesto: «L’IA non può sostituire la terapia umana, così come la terapia online non ha reso obsolete le sedute in presenza. Il lavoro clinico si fonda su empatia, ascolto profondo, intuizione relazionale: qualità che nessun algoritmo può replicare, almeno per ora».
Terapia online e intelligenza artificiale: due rivoluzioni a confronto
Non è la prima volta che la tecnologia scuote il mondo della salute mentale. Solo pochi anni fa, anche la terapia online veniva accolta con scetticismo. C’erano dubbi sull’efficacia, sulla qualità della relazione, sulla possibilità che uno schermo potesse diventare un ponte autentico tra terapeuta e paziente. Eppure, oggi, la psicoterapia a distanza è una realtà consolidata, riconosciuta, apprezzata da moltissimi professionisti e da chi ha trovato grazie a essa il modo di accedere a un percorso di cura prima irraggiungibile.
«Da pionieri della psicologia online in Italia, abbiamo visto con i nostri occhi quanto le tecnologie digitali possano trasformare l’accesso al benessere psicologico», spiega De Stefano, «è già accaduto con la terapia a distanza, che inizialmente suscitava diffidenza anche tra gli addetti ai lavori. Oggi, invece, è una modalità riconosciuta e apprezzata, che ha permesso a migliaia di persone di iniziare un percorso di cura, superando ostacoli geografici, economici o culturali».
Ma se la terapia online ha ridefinito il “luogo” della relazione, mantenendo centrale la figura dello psicologo, l’intelligenza artificiale introduce un salto ulteriore e più delicato. Per la prima volta, a parlare non è un essere umano. A mancare non è solo il corpo, ma anche l’intenzionalità, l’intuizione, il contatto. Ecco perché, secondo De Stefano, è fondamentale distinguere:
«L’IA non può sostituire la “terapia umana”. Così come la terapia online non ha reso obsolete le sedute in presenza, che oggi continuano a essere preferite da circa il 60% delle persone. Il lavoro clinico si fonda su empatia, ascolto profondo, intuizione relazionale: qualità che nessun algoritmo può replicare, almeno per ora.»
Eppure, proprio come accaduto per la terapia da remoto, anche in questo caso l’innovazione potrebbe aprire nuovi scenari, se affrontata con rigore e responsabilità.
«La salute mentale è un ambito delicato che richiede un equilibrio tra innovazione e rigore etico. Per questo motivo spero che i professionisti della salute mentale non la respingano, piuttosto se ne incuriosiscono e facciano parte di questa trasformazione, che in caso contrario avverrà comunque ma in altre mani».
Non si tratta, quindi, di scegliere tra tecnologia e relazione, ma di costruire un sistema in cui le due dimensioni possano convivere, arricchirsi, sostenersi a vicenda.
Uno sguardo al futuro: cura, tecnologia e relazioni
Immaginare il futuro della salute mentale significa confrontarsi con una trasformazione già in atto. Le tecnologie evolvono rapidamente, le necessità delle persone cambiano e la pressione sul sistema di cura diventa ogni giorno più evidente. Da un lato, c’è un desiderio crescente di accesso, personalizzazione, immediatezza; dall’altro, la consapevolezza che la profondità della relazione umana, soprattutto nella terapia, resta insostituibile.
A livello globale, accademici e clinici vedono nell’IA uno strumento di potenziamento, non di sostituzione. Il professor Alvarez‑Jimenez della University of Melbourne avverte: «Il vero problema è che c’è un enorme bisogno di servizi, chi ha cure mentali spesso aspetta mesi prima di vedere un professionista». L’IA, dunque, non può sostituire la terapia, ma può alleggerire le liste d’attesa e rendere il supporto più accessibile.
Anche in Italia si sta disegnando un futuro simile. Per De Stefano, il contesto è chiaro: «Immaginare il futuro della salute mentale significa riconoscere che sta cambiando e che deve cambiare. Nei prossimi 5‑10 anni mi auguro un mondo in cui la salute mentale sia considerata finalmente normale e in cui la tecnologia non sostituisca la relazione, ma la potenzi, rendendola più accessibile, continua e personalizzata».
È una visione che unisce ottimismo e rigore: «Serviranno professionisti preparati, modelli sostenibili e un dialogo costante tra chi si occupa di salute, innovazione e impatto sociale.»
In questo equilibrio, le tecnologie più efficaci saranno quelle clinicamente validati e sviluppate in partnership tra terapeuti e ingegneri. Non serve solo passione tecnologica, ma anche governance etica, tutela dei diritti, protezione della relazione. «Il futuro della salute mentale, in Italia e nel mondo, non si farà con la velocità delle macchine, ma con la profondità delle relazioni».
I benefici misurabili della psicoterapia: meno stress, meno farmaci, meno pronto soccorso
Se da un lato, l’uso crescente dell’intelligenza artificiale nella sfera della salute mentale solleva interrogativi sull’efficacia e la sicurezza di strumenti non umani, dall’altro alcuni dati recenti confermano quanto sia fondamentale, oggi più che mai, rafforzare il ruolo della psicoterapia. Non solo per il benessere individuale, ma anche per le ricadute concrete sull’intero sistema sanitario.
Uno studio pilota condotto dal Dipartimento di Psicologia Dinamica, Clinica e Salute della Sapienza Università di Roma e Unobravo ha analizzato gli effetti di un percorso psicologico di almeno sei mesi su un campione di oltre 3.400 pazienti. I risultati mostrano una correlazione significativa tra l’avvio della terapia e la riduzione dell’utilizzo di alcuni tra i principali servizi sanitari: accessi al pronto soccorso, visite specialistiche, esami diagnostici e assunzione di farmaci.
In particolare, rispetto al trimestre precedente l’inizio del percorso, il numero medio degli accessi al pronto soccorso si è ridotto di circa il 50%. Anche il ricorso agli esami di laboratorio è diminuito del 15%, con una tendenza coerente nei diversi sottogruppi per età e genere. Tra gli over 35 si segnala inoltre un calo di circa il 10% nelle visite specialistiche. Il trend si riflette anche sull’uso dei farmaci: nel campione totale, e in particolare tra le donne e gli over 35, è emersa una diminuzione sia nell’assunzione di farmaci prescritti che di automedicazione.
Oltre agli indicatori oggettivi, lo studio ha rilevato anche miglioramenti percepiti sul piano del benessere psicofisico. L’83% dei partecipanti ha dichiarato una riduzione dei livelli di stress, il 79% una diminuzione dell’ansia e il 78% un miglioramento del tono dell’umore. Il punteggio medio attribuito all’efficacia del percorso nel migliorare la qualità della vita è stato di 8,1 su 10, con una netta prevalenza di risposte concentrate tra 8 e 10. «I risultati tracciano una direzione chiara e incoraggiante: per molte persone, il benessere psicologico si traduce anche in un cambiamento nel rapporto con la salute fisica e con il sistema sanitario», conclude De Stefano.