Paolo Cappuccio non si scusa più: «In cucina c’è il fancazzismo più totale. Sono schiavo dei miei dipendenti»


Lo chef Paolo Cappuccio ha pubblicato nei giorni scorsi un post di ricerca personale piuttosto particolare. Escludendo cioè alcune categorie di persone: «Fancazzisti, comunisti, drogati, ubriachi e per orientamento sessuale». Poi lo ha cancellato. A suo dire per i messaggi e le minacce di morte che avrebbe ricevuto. Con il Corriere della Sera si è scusato: «È stato uno sfogo». Con il Giornale invece rivendica ciò che ha scritto: «Da decenni gestisco diverse brigate in giro per l’Italia e da dopo il Covid abbiamo perso il controllo dei dipendenti. Pochi doveri e tantissimi diritti. Siamo passati dalla schiavitù negli anni ‘90 in cucina al fancazzismo più totale».
Schiavitù e fancazzismo
Nel colloquio con Hoara Borselli Cappuccio spiega il fancazzismo: «Se un cuoco arriva in ritardo una, due, tre volte, io non posso fare niente perché mi risponde che se non mi sta bene si toglie il grembiule e se ne va». Si tratterebbe quindi di un ricatto «costante. Provi ad immaginare se in un albergo di lusso dove hai cinque cuochi, una mattina non si presenta nessuno a fare le colazioni perché non si vogliono svegliare all’alba». E quindi: «Se li riprendo e faccio notare che è la terza volta che fanno ritardo la risposta è questa: “Se non ti va bene, lo fai tu”. Se ne vanno negli alloggi e si mettono in malattia. Il dottore gli accorda una settimana di malattia e visto che non c’è un controllo dell’Inps io mi trovo senza forza lavoro».
Il medico e il cuoco
In effetti appare quantomeno scandaloso che sia un medico a dire che una persona sta male e non il suo datore di lavoro. Ma le vessazioni che deve subire un imprenditore del calibro di Cappuccio non finiscono qui: «Noi imprenditori non abbiamo nessun mezzo per poter contrastare questo fenomeno. I dipendenti sono diventati i padroni. E ricattano». E cioè: «Spesso mi trovo a dire loro che se non si comportano bene, se non lavorano seriamente, sarò costretto a mandarli via. Sa cosa rispondono? Che se li mando via dovrò comunque pagarli fino a fine stagione. Quindi succede che un dipendente lavori 20 giorni e pretenda di essere pagato fino alla fine. Questo per me è un ricatto, non è professionalità. Sono cinque anni che noi imprenditori viviamo sotto questo ricatto. Siamo schiavi dei dipendenti. Infatti non ha idea della solidarietà che sto ricevendo dalla categoria».
Il pedofilo e quello coi pantaloni calati
Insomma, è vergognoso secondo Cappuccio che se si decide di licenziare in tronco qualcuno senza preavviso poi lo debba pagare. Poi passa a un aneddoto: «L’ultima che ho visto è stata terribile. In brigata con noi mi sono ritrovato un pedofilo. Quando ho sgamato i messaggi e le foto che guardava sul telefono gli ho immediatamente intimato di andare via». Andato? «No, non potevo licenziarlo. La giusta causa non esiste. Abbiamo mani, bocca e piedi legati». E anche l’abbigliamento, sostiene, lascia a desiderare: «Oggi un ragazzo di vent’anni arriva e ti dà del tu. Si presenta con il pantalone calato e un atteggiamento senza un briciolo di rigore e di rispetto. Guai se gli dici qualcosa perché prende e se ne va. Così facendo tu crei un disagio all’azienda perché se un lavapiatti ti va via ad agosto, chi trovi? Comprometti la stagione lavorativa».