Lo chef che non vuole «fancazzisti, gay e comunisti»: ecco perché l’annuncio sui social di Paolo Cappuccio viola la legge


Nei giorni scorsi ha fatto molto discutere il post pubblicato da un noto chef sui suoi canali social, in cui cercava «uno chef con brigata per hotel 4 stelle in Trentino». Fin qui nulla di strano, se non fosse per l’elenco delle persone “non gradite”: “comunisti/fancazzisti”, “persone con problemi di alcol, droghe e di orientamento sessuale”. Il post si chiudeva con una battuta: «Se eventualmente resta qualche soggetto più o meno normale… ben volentieri». Una frase che, al di là del tono provocatorio, ha sollevato un’ondata di critiche. Ma oltre all’indignazione, c’è un punto giuridico da chiarire: anche un post informale sui social può rientrare nel perimetro delle regole che disciplinano la selezione del personale, e dunque deve rispettare i principi fondamentali di non discriminazione.
La norma
Il riferimento normativo è l’articolo 10 del decreto legislativo 276 del 2003 (la cd Legge Biagi), che stabilisce i criteri e i limiti per chi effettua attività di ricerca e selezione del personale. La norma, seppur pensata in origine per agenzie per il lavoro e intermediari autorizzati, è stata nel tempo interpretata in senso estensivo, fino a ricomprendere anche i datori di lavoro che pubblicano direttamente annunci destinati al pubblico, a prescindere dal canale utilizzato. Non è infatti rilevante la forma dell’annuncio – non serve che sia strutturato o formalizzato – ma la sua funzione: se il messaggio è rivolto a raccogliere candidature, è soggetto alle regole sulla trasparenza e sull’equità dell’accesso al lavoro.
L’articolo 10 vieta in modo espresso ogni forma di discriminazione, diretta o indiretta, fondata su sesso, orientamento sessuale, stato matrimoniale o di famiglia, età, origine etnica, convinzioni personali, appartenenza sindacale, disabilità, religione o nazionalità. Tali divieti operano sia nella fase di selezione vera e propria, sia nella formulazione e pubblicazione dell’annuncio. Il legislatore impone che l’attività di ricerca di personale si svolga con modalità tali da garantire correttezza, trasparenza e rispetto della dignità dei candidati.
Cosa succede a chi viola le regole
Chi viola queste regole può essere soggetto a sanzioni pesanti, che vanno da 5.000 a 50.000 euro. La giurisprudenza ha più volte affermato che i messaggi rivolti al pubblico per la ricerca di personale, anche se diffusi tramite canali informali come i social media, devono rispettare integralmente i principi di non discriminazione previsti dalla legge. Accanto a questi divieti, è importante ricordare quanto previsto anche dall’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori (Legge 300/1970), che vieta al datore di lavoro di effettuare indagini, anche in fase di selezione, sulle opinioni personali dei candidati, comprese quelle politiche, religiose e sindacali. Ebbene, un annuncio che esclude esplicitamente i “comunisti” – indipendentemente dalla veste ironica – non solo discrimina sulla base di una convinzione personale, ma costituisce anche un’indagine vietata sulle idee politiche altrui. È una violazione che incide direttamente sulla libertà del candidato e sul principio di riservatezza che la legge tutela con particolare rigore.
Il confine tra umorismo e discriminazione
Il fatto che un datore di lavoro utilizzi un linguaggio “ironico” o provocatorio, o che affidi la ricerca del personale a un post pubblicato sul proprio profilo personale, non lo sottrae ai vincoli di legge. È ormai principio consolidato che i criteri di selezione, anche quando espressi in forma semiseria o con intento umoristico, non possano ledere la dignità dei potenziali candidati né escludere categorie tutelate. La discriminazione, anche quando travestita da battuta, resta tale. Va detto, a onor del vero, che lo chef ha poi rimosso il post, probabilmente anche a seguito delle numerose reazioni negative ricevute, e quindi avrebbe poco senso prolungare ancora la vicenda. Ma bisognerebbe imparare la lezione impartita da questo episodio: il linguaggio va usato con cautela, anche sui social media.