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Dazi, che futuro c’è per il Made in Italy? Dal vino ai farmaci, cosa deve fare ogni settore per sopravvivere all’accordo

29 Luglio 2025 - 06:28 Stefania Carboni
dazi auto toyota tokyo giappone
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Una bottiglia di vino rischia di passare, nei ristoranti americani da 11 a 60 euro. Mentre l'olio nostrano teme la concorrenza del più conveniente turco. Quali sono i mercati che beneficiano del 15 per cento e quali invece devono puntare ad accordi esclusivi

Se la mozzarella di bufala passerà da 45 a 60 euro al chilo gli americani continueranno a comprare dai produttori italiani? Se lo chiede Repubblica che analizza, settore per settore, come cambieranno i mercati davanti all’accordo stilato per dazi al 15 per cento, tra l’Unione Europea e gli Usa. E sopratutto quanto questo influenzerà il prezzo di listino.

Settore agroalimentare: il costo dei dazi peserà 1,2 miliardi

Gli Stati Uniti sono il secondo mercato di sbocco dell’agroalimentare italiano, nel 2024, con quasi 8 miliardi di euro di vendite. Si tratta dell’11,4% dell’export totale. Per Confagricoltura, si tratta di cereali, riso e derivati (1,25 miliardi, di cui 670 milioni di pasta), mentre i formaggi “valgono” quasi mezzo miliardo e oli e grassi arrivano al miliardo. In particolare si teme che l’olio italiano venga rimpiazzato con quello turco, del Sud America o tunisino. Nel panorama agroalimentare influenzeranno molto le eventuali esenzioni. Repubblica ricorda che il Parmigiano, che esporta il 23% della sua produzione negli USA, già aveva un dazio del 15 per cento. i più colpiti saranno i produttori di salumi, che rischiano di perdere 25 milioni.

Alcol: sale il prezzo del vino al ristorante. La bottiglia sale a 60 dollari

L’export del vino italiano negli Usa vale quasi 2 miliardi. Per l’Unione italiana vini, a inizio anno una bottiglia che usciva dalla cantina a 5 euro finiva allo scaffale a 11,5 dollari; tra dazi e svalutazione del dollaro, salirà a 15 dollari (+186%) e al ristorante la stessa bottiglia potrebbe costare 60. I bianchi trentini e friulani, i rossi toscani e piemontesi rischiano di lasciare, come teme la Cia, il campo libero «al Malbec argentino, allo Shiraz australiano fino al Merlot cileno», precisa il quotidiano. Il Brunello potrebbe bruciare 3 milioni di bottiglie. Lamberto Frescobaldi, presidente Uiv, è lapidario con Repubblica: «Con i dazi al 15%, il danno per le nostre imprese è di 317 milioni».

Auto, saranno colpiti di più i tedeschi

Si dovrebbe gioire per un dazio al 15%, rispetto al 25%. L’Europa verso gli Stati Uniti nel 2024 ha esportato 750 mila veicoli per un valore di 38,5 miliardi. Gli extracosti da assorbire, riporta il quotidiano, oscillano intorno ai 5 miliardi. E pesano sui marchi tedeschi, in particolare Bmw, Mercedes, Porsche e Audi. «È come se fosse il 15% più il 10% – dichiara Gianmarco Giorda, direttore dell’Anfia, sigla della componentistica italiana – i margini sono bassi, i contraccolpi sull’auto tedesca si sentono e i costruttori scaricheranno sulla filiera perché sarebbe inimmaginabile alzare i prezzi. Le esportazioni verso gli Usa valgono 4,5 miliardi, gli extracosti intorno ai 650 milioni».

Farmaceutica, meccanica, moda

Le preoccupazioni sono sia sul settore farmaceutico (dove non è chiaro per ora se si saranno esenzioni per alcune categorie di prodotti), e il settore della meccanica. «Le aziende della meccanica, per oltre il 90%, hanno dimensioni medie e piccole. Dunque mancano dei margini per assorbire quel
15%», ha spiegato il presidente di Federmeccanica. Si spera nell’esenzione in alcuni ambiti e sottosettori più specifici. Come per esempio Ucimu, l’associazione dei costruttori italiani di robot e automazione, per le macchine utensili per la lavorazione dei metalli. Tipologia di bene molto voluto negli USA. E infine il settore della moda. Molti marchi del lusso hanno già ritoccato i prezzi a inizio anno. La quota dell’export verso gli Usa del settore è al 17% pari a 11 miliardi di controvalore, un dazio teorico di 1,65 miliardi. I costi riguardano più che altro la filiera produttiva. Se alti, conclude Repubblica, le concerie e le aziende dei tessuti sono costrette a cedere il controllo a gruppi internazionali (spesso francesi) per garantire sia produzione che posti di lavoro.

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