Il politecnico di Milano si spacca su Gaza, vince la linea della rettrice. La protesta di 450 docenti


Il Politecnico di Milano ha approvato una mozione che condanna le violenze in corso a Gaza e in Ucraina e auspica un cessate il fuoco in Medio Oriente. Il testo è stato presentato dalla rettrice dell’ateneo Donatella Sciuto, ma lascia insoddisfatto parte del corpo docente e studentesco. Sul tavolo del senato accademico, infatti, c’era anche un’altra mozione più articolata, sottoscritta da 450 professori dell’ateneo e 150 dipendenti del personale tecnico e amministrativo. Un appello che andava oltre la condanna delle violenze e proponeva un impegno nuovo e strutturato da parte dell’università, a partire dal riconoscimento dello Stato di Palestina e dalla ripresa di un processo politico verso la convivenza pacifica di due popoli e due Stati. Tra le richieste, anche la sospensione del Memorandum d’intesa tra Italia e Israele sulla cooperazione militare e la creazione di una commissione etica incaricata di vigilare sulla ricerca delle tecnologie dual use, ovvero utilizzate sia per scopi civili che militari. Un insieme di proposte che, però, non hanno trovato spazio nella mozione approvata. Ed è proprio questa assenza che i centinaia di docenti firmatari della proposta alternativa contestano. «Il documento approvato è annacquato, privo di richieste concrete e di coraggio», commenta a Open Arturo Lanzani, professore ordinario di Urbanistica al Politecnico e uno dei firmatari della mozione originaria.
La contrarietà della rettrice
I docenti promotori della mozione avevano cercato un confronto diretto con la rettrice prima di presentare la mozione. «Abbiamo presentato il testo alla rettrice illustrandone il senso e le motivazioni per avviare un dialogo costruttivo», racconta Lanzani. «Ma fin da subito è emersa la sua contrarietà, che si è poi concretizzata nella proposta di una mozione alternativa». Il Senato accademico ha dunque seguito un’altra direzione, legittima ma – secondo i docenti – distante dallo spirito e dalle richieste concrete di oltre 600 firmatari tra docenti e personale tecnico. La mozione che è stata approvata prevede una condanna alle violenze in corso a Gaza, con riferimento anche all’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, unitamente a tutte le altre guerre nel mondo, a partire da quella in Ucraina. Non sono invece presenti i riferimenti alla sollecitazione di riconoscere lo Stato palestinese, alla sospensione del memorandum di intesa tra Italia e Israele per la cooperazione militare, e la ricognizione dei progetti scientifici dei programmi di ricerca con università coinvolte nei crimini di guerra.
Cosa chiedeva la mozione dei 450 docenti

Il documento elaborato dai docenti arriva dopo una prima forma di mobilitazione, l’11 giugno, quando un gruppo di circa 300 professori si era riunito davanti al rettorato per prendere posizione contro le violenze nella Striscia di Gaza. «Dopo quel raduno, abbiamo decisione di passare a un atto formale, una mozione, che ha trovato appoggio da ancora più docenti», spiega il professore Lanzani. La prima parte della mozione chiedeva all’ateneo di esprimersi e prendere una posizione netta: condanna delle violenze nella Striscia di Gaza, appello per la piena attuazione delle risoluzioni dell’Onu, riconoscimento dello Stato di Palestina e sospensione del Memorandum d’intesa tra Italia e Israele in ambito militare. «Abbiamo fatto riferimento esplicito alle ordinanze della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio e del 24 maggio 2024», spiega il docente. «Ma la mozione approvata, invece, ha tolto ogni richiamo concreto. Siamo insoddisfatti. È una condanna generica, messa sullo stesso piano della guerra in Ucraina. Ma qui la differenza è sostanziale: il nostro ateneo non ha relazioni con Hamas né con la Federazione Russa. Invece, ha relazioni attive con Israele che oggi è coinvolto in gravi violazioni del diritto internazionale. È lì il nodo che è stato rimosso».
Saltata anche la proposta di una commissione etica per la ricerca
La seconda parte della mozione riguardava invece gli impegni interni dell’ateneo. I docenti chiedevano una revisione della diplomazia scientifica, la ricognizione dei progetti di ricerca con enti israeliani coinvolti nel conflitto, e una vigilanza più attenta sul rispetto delle norme etiche della ricerca, in particolare per quanto riguarda tecnologie militari dual use, ovvero utilizzate sia per scopi civili che militari. «Avevamo proposto, ad esempio, di attivare una commissione etica interna che valutasse i partenariati con aziende produttrici di armamenti. Non per criminalizzare nessuno, ma per evitare il rischio che il Politecnico, magari inconsapevolmente, partecipi allo sviluppo di tecnologie impiegate in contesti di guerra. Anche qui, tutto è stato cancellato in nome di una supposta libertà di ricerca, che sembra prevalere su un altro principio costituzionale fondamentale: il rispetto dei diritti umani». E aggiunge: «Il Politecnico collabora con aziende, come Leonardo, attive anche nel settore della difesa. Se c’è un accordo tra l’Italia e Israele per la cooperazione militare, non è inverosimile che alcune delle tecnologie sviluppate possano essere impiegate in quel contesto. Non abbiamo certezze, per questo chiedevamo l’attivazione di una commissione che vigilasse su questi aspetti».
«Le università non umanistiche devono interrogarsi sulla ricerca»
Oltre alla questione immediata del conflitto, i firmatari vogliono sollevare un tema più ampio, come spiegano in un comunicato: il futuro della ricerca in un contesto dove il finanziamento pubblico si riduce e cresce, invece, il peso dell’industria militare. «La nostra preoccupazione è che la ricerca civile finisca per dipendere sempre più da risorse legate alla difesa. È un tema che deve interrogare l’etica e le responsabilità delle università, specialmente di quelle come il Politecnico, non umanistiche», incalza Lanzani. E conclude: «Nessuno slogan, nessun estremismo: solo la richiesta che l’ateneo, come istituzione pubblica, rifletta con maggiore attenzione su ciò che accade nel mondo e sul ruolo che la ricerca può giocare, nel bene e nel male. Davanti a tutto questo non si può restare in silenzio. È una questione di coscienza e responsabilità sia personale che accademica».