Roberto Saviano e lo “scandalo” dei boss di camorra scarcerati d’estate «quando siamo distratti»


Uno scandalo ignorato. La scarcerazione degli esponenti del clan Moccia secondo Roberto Saviano è la vergogna dell’estate. L’arrivederci alle sbarre è arrivato per decorrenza dei termini di custodia cautelare. E ora fuori dal carcere ci sono Antonio, Luigi e Gennaro Moccia. E ancora Pasquale Credentino e poi Filippo Iazzetta, Massimo Malinconico, Benito Zanfardino, Giovanni Piscopo, Francesco Di Sarno, Francesco Favella, Antonio Nobile, Gennaro Rubiconti, Giovanni Esposito. Succede in estate «quando l’attenzione è minima», dice lo scrittore sul Corriere della Sera. Perché d’estate nessuno presta attenzione.
Una sconfitta per l’antimafia
Per l’antimafia si tratta di «una delle più grandi sconfitte della storia degli ultimi cinquant’anni», sostiene l’autore di Gomorra. «Un terremoto l’hanno definita questa scarcerazione. E terremoto è. Il gotha del clan Moccia non è un gruppo come gli altri, non si tratta semplicemente di criminali o narcotrafficanti che sono riusciti, attraverso un cavillo, a farla franca per qualche mese. Il clan Moccia è un clan di imprenditori, con una linea politica precisa e una negoziazione continua con le istituzioni e con la società civile. Da anni la loro tesi è quella di considerare il denaro sporco «legittimo» purché non alimenti altro crimine».
La testa d’ariete
I Moccia, secondo Saviano, sono la «testa d’ariete di tutte le mafie italiane che tentano informalmente un riconoscimento legittimo delle loro attività legali, da separare rispetto al segmento criminale. Per i capi mafia tutti i business sono ugualmente sporchi, esistono solo quelli legittimati e quelli invece considerati illeciti. Sopportano e accettano che quando sparano o spacciano o estorcono siano perseguiti, ma non lo possono più sopportare quando investono, comprano, costruiscono». Il teorico della nuova strategia è Antonio Moccia, re del sodalizio creato dalla madre Anna Mazza, prima donna a finire al 41 bis.
Antonio Moccia
Moccia, racconta Saviano, «da ragazzino, a 13 anni, uccise all’interno del Tribunale di Napoli Tonino Giugliano, colui che aveva ucciso suo padre Gennaro. Minore di 14 anni non fu imputabile, ma quel gesto lo rese erede designato». Il clan oggi è un «consorzio imprenditoriale capace di gestire i cantieri dell’alta velocità, una rete estesa per la distribuzione di frutta, verdura e formaggi nei mercati ortofrutticoli di Roma, nei supermercati e persino a Barcellona. Sono proprietari di decine di ristoranti nella Capitale e investono nella distribuzione di benzina, gestiscono lo smaltimento olii esausti e rifiuti in diverse province italiane. Sul piano criminale cercano di realizzare la strategia della dissociazione, simile a quella adottata dal terrorismo politico: prendersi condanne individuali, non coinvolgere altri, lasciare intatta la struttura, avere sconti di pena per la confessione ed essere considerati ormai non più camorristi ma soprattutto dissociandosi e non pentendosi salvano i patrimoni».
Moccia e la madre
La conclusione: «Quando Roberto Moccia — emerge negli atti dell’Operazione Morfeo — parla con la madre, contento di essere tra gli imprenditori più influenti di Roma, la madre gli ricorda: «Tutto quello che a che fare con la nostra famiglia è camorra», come a volerlo mettere in guardia sulla propria identità e sui pericoli. Lui però risponde: “Camorra pulita mamma. Mica con la droga”».