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Il ritorno dei Ministri con Aurora popolare: «Il nostro segreto è non avere risposte e crescere con il nostro pubblico» – L’intervista

30 Settembre 2025 - 15:12 Gabriele Fazio
Si tratta dell'ottavo album della band cult del circuito indie, il primo dopo tre anni di silenzio

Aurora popolare, nuovo e ottavo album dei Ministri, il primo dopo tre anni di silenzio, per molti suonerà come il disco preferito della band cult del circuito indie italiano. Questo perché i Ministri (ovvero Davide “Divi” Autelitano, Federico Dragogna e Michele Esposito) sono cresciuti e con loro il pubblico che li ascolta, così il loro nuovo lavoro è più adulto, consapevole, la penna di Dragogna particolarmente illuminata ed è emersa la conseguenziale necessità di prendersi delle responsabilità ugualmente adulte e consapevoli.

Così l’album ha il retrogusto amaro di chi affronta di petto tematiche sociali centrali, tanto da apparire come un disco politico, un aspetto che esplode in brani come Buum, Piangere al lavoro o Avvicinarsi alle casse e che hanno un retrogusto amaro molto coinvolgente. Ma Aurora popolare apre anche ampi squarci di speranza, come in Spaventi e anche nella title track, che vibra, meravigliosamente, in equilibrio tra fiducia e disillusione. Fino a culminare in un pezzo meraviglioso, Cattivi i buoni, che ci inchioda, tutti, alla nostra realtà agrodolce.

Aurora popolare è un disco politico?

«È un disco che parla prima di tutto del sentimento politico, di quel sentimento unico di speranza che cresce esponenzialmente quando lo senti con tante altre persone attorno. Perché quando lo senti con tante altre persone attorno riesci a immaginarti un orizzonte di giustizia. È un sentimento che col passare del tempo tramonta, e nel disco ci chiediamo se tramonta perché stiamo diventando vecchi e incominciamo a vedere la fine o tramonta per quello che è la realtà fuori. Quindi è un disco politico se si intende la politica come un sentimento»

Questo secondo voi è un disco utile?

«Ovviamente è un po’ difficile dirselo da solo, sarebbe come farsi la recensione del ristorante su TripAdvisor da soli. Lo speriamo, speriamo di avere una funzione per la gente che c’è là fuori. Devo dire che il pubblico che abbiamo ci testimonia questa cosa continuamente. Ed è una funzione di speranza ma anche di sfogo della rabbia»

Nel disco è presente anche l’elemento rabbia…

«Però nel momento in cui questa rabbia la fai diventare canzone e poi concerto, cavolo, riesci a farla fluire fuori. Perché non possiamo nasconderla o eliminarla, o fare come quando qualcuno diceva “Aboliamo la povertà”. Ecco, non si riesce ad abolire la povertà e non si riesce neanche ad abolire la rabbia, quindi dobbiamo conviverci. E dove la incanaliamo? Noi cerchiamo di incanalarla anche nelle canzoni»

E poi ne usufruisce anche il pubblico no?

«Assolutamente. Noi abbiamo della gente che viene a sentire i concerti, pogano come i matti e il giorno dopo vanno a lavorare alle sette e mezza del mattino più leggeri»

Come si incastra questo disco nella storia dei Ministri?

«Come tipo di approccio, è stato un po’ riprendere delle cose che avevamo nel primissimo disco, però quella rabbia era buttata in maniera un po’ eccessiva, nel senso che non sapevamo quasi noi a momenti perché eravamo così tanto arrabbiati. Oggi invece sappiamo perché lo siamo stati, per cui ci è sembrato giusto riproporci con quel tipo di primo motore artistico, però con una consapevolezza diversa. Se I Ministri avessero cominciato molto più tardi forse avrebbero fatto un disco come questo come primo disco»

Forse è questo il segreto dei Ministri? Invecchiare insieme al proprio pubblico?

«Cresciamo sicuramente assieme al nostro pubblico. Poi ci sono anche tante persone che si avvicinano a noi in questo momento e riescono comunque a trovare dei punti di contatto, perché noi facciamo dischi perché viviamo la nostra realtà, parliamo di quello che ci succede, di quello che succede nel mondo e lo facciamo ponendoci domande e non cercando di dare risposte. Il nostro segreto forse è quello: non dare giudizi ed essere i peggiori critici di noi stessi. È un po’ il nostro destino»

Destino o condanna, considerato che il settore va da tutt’altra parte…

«La condanna è quando quella cosa diventa una schiavitù e ti trasforma in un fanservice continuo, ma su quello per fortuna abbiamo abituato fin da subito le persone che ci seguono ad aspettarsi di tutto. Noi non siamo vittime di un’epoca sonora, abbiamo di fatto cominciato a fare musica nel momento in cui nessuno faceva quello che facevamo noi, anzi non si faceva neanche più musica in italiano. Noi abbiamo ripreso l’idioma, l’abbiamo portato in un genere che non voleva più fare nessuno. Siamo sempre stati di gran moda insomma! C’è un uncool gigantesco dentro i nostri cuori. (e ridono

Ma come sta il rock in Italia?

«Il rock sta che comunque esiste, è ovvio che non è il momento in cui hai il riflettore puntato addosso ed è ovvio che poi comunque bisognerebbe anche un attimino capire perché non ce l’ha. Però è una cosa generazionale, passa il tempo e cambia la musica, siamo cresciuti in un momento in cui l’hip hop era un genere minoritario in mezzo al panorama italiano e guarda oggi che cosa è diventato. E che cosa è successo? Semplicemente la musica ha fatto il suo giro e magari un giorno tornerà al rock»

È anche una questione di spazi, di contatto con il pubblico, di confronto tra musicisti, no?

«Sicuramente, il rock c’entra con il fatto di poter provare con la tua band in qualche posto e di poter poi suonare dal vivo in qualche posto, se ognuno si chiude nella propria cameretta davanti al computer avrai elettronica e hip hop»

La musica suonata invece è più complessa, richiede più impegno…

«Avere una band è un po’ più uno sbattimento. Noi dobbiamo mettere a posto tre teste, è un continuo scambio, un confronto, e questa pensiamo che sia probabilmente un’epoca, musicalmente parlando, che sul confronto può avere delle lacune magari, mentre noi siamo abituati da sempre a fare questa cosa qui»

La musica alle volte è anche una questione di responsabilità, quella che con questo disco vi assumete di petto, in un settore che sembra non considerare più questo fattore..

«Fare musica è un privilegio enorme e quindi è inevitabile che quando tutta questa dinamica da gioco diventa un lavoro, è giusto riflettere di più e prendersi delle responsabilità. All’inizio eravamo veramente cani sciolti, ma perché non c’era veramente tanta gente davanti o comunque la poca gente che c’era si entusiasmava proprio per la nostra bizzarria»

E oggi che invece siete un punto di riferimento nelle vite di chi vi segue?

«Oggi che il pubblico è diventato tanto sentiamo in qualche modo non tanto la responsabilità nei loro confronti ma la responsabilità del messaggio che può essere veicolato da noi o loro, quindi la voglia di comunicare un messaggio importante. La maggior parte della musica che sentiamo è un po’ uno spreco, perché hai grandi possibilità, grandi megafoni, grandi risonanze e finisci per dire delle cose che sono autoreferenziali. Questo per me non rientra nella cultura, sicuramente del rock in primis, e nemmeno della musica in generale»

Cosa vi piacerebbe che rimanesse di questo disco in chi lo ascolta?

«Dei brividi. Cioè, proprio quelli che sentiamo noi quando a un certo punto un pezzo funziona veramente. Quando un pezzo funziona devono arrivare i brividi, a un certo punto deve essere coinvolto il corpo, oltre la testa»

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