Andrea Laszlo De Simone torna con un nuovo album (ma non sul palco): «Giuro, non sono un artista» – L’intervista


Quando un’opera vibra di un consistente spessore artistico non c’è nulla da chiedere, nulla da specificare, nulla da indagare. L’unica cosa che si può provare a fare è ammortizzare il peso di quell’opera sulla nostra vita, sul nostro pensiero, riconoscere la linea che demarca il prima e il dopo l’incrocio con quella “cosa”, così potente da cambiare la prospettiva. Questo è ciò che capita quando si ascolta Andrea Laszlo De Simone, che ieri ha regalato al mondo Una lunghissima ombra, il suo nuovo album.
Una perla che in effetti ha molto a che vedere con una determinata prospettiva, sulla vita prima di tutto, per quel che riguarda le nostre sensazioni, la poetica che l’essere umano, qualsiasi essere umano, cela nel proprio intimo. Ma anche sullo stesso mestiere dell’artista, vissuto dal cantautore 39enne torinese in totale controtendenza, non solo musicale, rispetto a ciò a cui siamo abituati.
Tant’è che, duole dirlo, ma le canzoni di Una lunghissima ombra, come spiega nell’intervista, non saranno suonate in un tour, Andrea Laszlo De Simone conferma la scelta, avvenuta nel 2021, di non esibirsi mai più, di non abbandonare mai quell’approccio totalmente artigianale alla musica, che pare soddisfarlo ben oltre le luci stroboscopiche dello showbiz.
Una Lunghissima Ombra è un disco che vive di sensazioni, difficile chiedere chiarimenti all’autore…
«La speranza è sempre che non ci sia niente da aggiungere, quel che ne deve venire fuori è la libertà di analisi da parte del soggetto ricevente. Io fondamentalmente che cosa posso aggiungere su quest’album? Posso aggiungere che ho usato me stesso come cavia per esplorare una bolla dell’animo umano che normalmente non si condivide perché è molto privata. Posso aggiungere che non è un album autobiografico ma che più che altro ero io il materiale umano che avevo a disposizione per indagare un luogo che non mi sarei permesso di indagare in nessun altro. Spero però che ognuno poi ci ritrovi il proprio luogo e non il mio, ascoltando questo album».
Tu parli di luogo ma essenzialmente si tratta di un punto di vista…
«Non ti sbagli, lo chiamo luogo semplicemente per definire lo spazio intimo in cui sviluppiamo i punti di vista, in cui veniamo attraversati dai pensieri inclusivi, dai pensieri poco formalizzati anche con noi stessi, che però poi sono costituenti delle nostre opinioni, del nostro rapporto con la realtà, che sono sia custodi delle nostre ombre che generatori di ombre che andiamo a proiettare sulla realtà stessa.
Non è un punto di vista che si schiera a favore del dubbio, un punto di vista che cerca di lasciare spazio alle contraddizioni dell’essere umano, alle differenze dell’essere umano. E per farlo, sì, ho approfittato di una metafora piuttosto semplice in realtà, ho cercato di avere i tre elementi che poi formano l’ombra: un punto di luce che è rappresentato dal film, un oggetto che è rappresentato dai testi e poi le ombre che sono rappresentate dalla musica. Non ci sono un milione di parole, che è una mia tendenza già piuttosto frequente, cerco di fare in modo di dire tutto con la musica se sono in grado».
Il tuo punto di vista sembra ancora artigianale. Nel disco ci sono i rumori della tua casa, della tua strada, non è un disco che suona come uscito da un grosso studio di registrazione o da una posizione in generale privilegiata…
«Certo, è così. Questa è anche una condizione da cui non posso prescindere, nel senso che è il mio punto di osservazione effettivamente. Oltretutto non avrei neanche la capacità di cambiare status, anche perché non riesco ad aderire all’eredità culturale che spinge a mitizzare o idolatrare, per me il mestiere del musicista è artigianato puro. Io sono in grado di occuparmi di quell’aspetto lì, non sono capace di apparire, non riesco ad andare in televisione, mi mette profondamente a disagio, mi preoccupo di essere una presenza troppo ingombrante anche per lo sviluppo dei miei figli.
Ci sono tutta una serie di ragioni che costituiscono un punto di vista che parte da una realtà concreta, estremamente quotidiana. Non c’entra l’appartenenza a un ceto o l’inclinazione esistenziale più o meno espositiva, più o meno narcisista, è proprio qualcosa che io reputo fondante».
Potrebbe essere questo il motivo per cui si affeziona così tanto alle tue canzoni…?
«È una domanda che dovrei fare io a te. Può essere. Forse è anche la semplicità, io non sono una persona estremamente competente, sono sicuramente una persona estremamente sincera, al limite della sfacciataggine, nel senso che non colpevolizzo quel che penso e quindi molto spesso sono sincero, anche naïf, anche ingenuo per certi aspetti.
Io credo che quello che faccio musicalmente sia la somma di parti estremamente semplici, tanto è vero che le posso fare persino io, che non ho grandi competenze musicali, che non so leggere la musica. Io sono abbastanza convinto di avere, tra le mie migliori qualità, la visione d’insieme in quel che faccio, ma non sono sicuramente un virtuoso di niente. Forse la batteria la so suonare bene. Il resto, mi pare, meno. Non è che tocco uno strumento ed è subito magia, io mi impegno, non avendo bagaglio culturale sufficiente per dare le cose per scontate.
Per me non c’è niente di scontato quando sto facendo musica. Ogni nota che tocco mi sembra una scoperta, quindi la vivo con meraviglia, la vivo con eccitazione, sono molto contento di fare musica, mi piace tantissimo. Però mi piace con semplicità, nello stesso modo in cui a un bambino piace il gelato».
Effettivamente sembra che tutto sgorghi in maniera del tutto naturale e che questa naturalezza ti faccia andare oltre…
«Non credo di andare oltre, onestamente. Può essere che io vada di lato, ma questo di base è un mio atteggiamento esistenziale, così anche in classe, così anche a casa con i miei genitori. Non so se per handicap o per capacità, ma tendo a percorrere una linea parallela. Probabilmente in ambito musicale poi sembra quasi una linea temporale parallela.
Io di questo me ne rendo un po’ conto, perché è un tipo di suono che non esiste oggi, ma non esisteva neanche ieri, non esisterà neanche domani, un suono che è figlio di un percorso personale in cui inizio a fare musica con il Canta Tu o con dei microfoni che avevano dei suoni piuttosto caratterizzati, e da cui poi non sono più venuto fuori, perché ci riconosco me stesso in quella cosa lì».
Non ti rendi quindi conto di quello che stai facendo con la tua musica?
«Io mi ritengo fortunato perché non ho il narcisismo collocato in un punto evidentemente standard, però è provante anche ricevere il pregiudizio positivo, che è un punto dal quale tu puoi solo deludere. Non potrei mai essere all’altezza di quello che qualcuno si è immaginato di me. Chiaro, sono pienamente consapevole che un pregiudizio negativo sia estremamente più doloroso, che la mia sia una posizione fortunatissima e sono pienissimo di gratitudine per quello che la vita mi sta regalando, che le persone che mi stanno regalando».
Mi sa che ti toccherà farci i conti però…
«Cercherò di essere all’altezza, dubbiosamente, sperando di non deteriorarmi come la maggior parte delle persone che si ritrovano o per scelta o loro malgrado ad occupare delle posizioni che sono più grandi di loro».
Tutto ciò è molto interessante, è quasi un peccato che poi, volente o nolente, debba finire nel calderone ben poco poetico del mercato discografico…Come vivi questo aspetto del tuo fare musica?
«Mi pesa, effettivamente mi pesa. Magari non nel momento in cui la stiamo facendo, perché poi a me piacciono le persone, non mi dispiace interagire con gli altri. È più la consapevolezza della finalità, lì ho un contrasto interiore, nel senso che se da un lato mi piace molto l’idea di fare le cose in una maniera personale, dall’altro so che ci sono persone che hanno investito su di me».
L’ineludibile aspetto della musica legato al concetto di lavoro…
«Che poi per me non è nemmeno un lavoro, a me proprio piace, nel senso che potrei fare anche l’assistente dal ferramenta e fare musica solo di notte e sarei felicissimo, non mi mancherebbe nulla. Però, insomma, ormai siamo in ballo…»
Come lo affronti?
«Si compiono delle scelte quotidiane, ci si riesce a proiettare poco più in là ogni volta, si può avere una visione globale complessiva, ma insomma poi si procede un passo per volta. E facendo questo passo per volta io mi trovo quotidianamente nella situazione di ostacolare il lavoro delle persone che si occupano dell’ufficio stampa, delle persone che si occupano del management, delle persone che si occupano dei concerti. Io sto complicando la vita a tutti quanti, me ne rendo conto e passo le mie giornate a chiedere scusa, esplicitando però che non posso fare diversamente, che questo è proprio il massimo.
Anche questa intervista che stiamo facendo è un grosso compromesso, è il mio modo di andargli incontro nella consapevolezza che non faccio più concerti, che non voglio fare interviste, che non faccio tutto quello che non faccio».
Quindi confermi che non ci sarà un live legato a questo disco? Sei ancora convinto di non tornare sulle scene?
«Sì, non farò concerti. Poi io sono già cambiato talmente tante volte in vita mia, nelle mie posizioni, che non posso sapere cosa sarà tra dieci anni. Io non me la sento di sposare nessuna certezza, sono un fan del dubbio, sono convintissimo che sia una necessità per sviluppare la tolleranza, per includere gli altri, per limare con più attenzione quelle che sono le nostre posizioni, facendo in modo di non schiacciare nessuno, di non essere più di nessuno. Per cui non dico “mai”, però ci somiglia».
Tra l’altro così facendo rinunci alla fetta più grossa delle entrate economiche di un progetto musicale…
«Sì, però non è una rinuncia: dal mio punto di vista è proprio una conquista, perché io non sto veramente rinunciando a niente. Crescendo cambiano tante priorità, io mi ritengo estremamente fortunato che nella mia scala di priorità ci sia qualcosa che io ritengo più prezioso di quanto io ami suonare. E poi, sono onesto: io sono fermamente convinto che nella musica ci siano tantissimi mestieri differenti. C’è l’interprete, c’è il turnista, c’è il compositore, c’è il produttore. Quando parliamo di musica molto spesso sintetizziamo e siamo abituati a vedere una figura soltanto».
E la tua qual è?
«Io ho la vocazione verso una sola voce, che è quella di produrre musica. Io scrivo registrando, a me piace fare quella cosa lì, la faccio da quando ero bambino, mi piace tantissimo farla e non potrei rinunciarci mai, non riesco a vederla come un lavoro. Ci ho provato, per risultare più professionale, per poter aderire magari eventualmente a dei tempi, ma io non posso farla in quel modo. Io non ci riesco e non riesco a vederla come un lavoro. Però non sono un suicida, la mia intenzione non è mandare in malora le cose, è semplicemente farle con un criterio che sia comprensivo di tutte quelle che sono le mie priorità.
Dunque, io porto avanti i miei progetti, ma preferisco farlo vicino ai miei figli, perché quella è una chance che non si ripete altre volte nella vita. Io posso eventualmente decidere, anche a 80 anni, di salire su un palcoscenico, ma non posso decidere a 80 anni di cominciare a fare il padre o di veder crescere i miei figli o di crescere con loro. Non voglio perdere quella chance di portarmi per il resto della mia vita un bagaglio così importante come quello che genera questo scambio di amore, di responsabilità, di verità, di affetto, di tutto quello che ne consegue, che è lo scambio con i figli, il ruolo genitoriale, eccetera, eccetera. Ma al tempo stesso non voglio fossilizzarmi e fossilizzare anche l’idea delle altre persone intorno a un immaginario che è consolidato già storicamente, ma che non mi appartiene.
Se tu pensi a me come una possibile pop star di ieri, di oggi o di domani, il problema è che vai a limitare il parco delle mie possibilità future ad un algoritmo molto semplice. Fai il musicista, scrivi delle canzoni, le registri, le pubblichi, fai i concerti, torni a casa e ricominci. Ma io non posso pensare che la mia vita sia questa o che diventi questa. È un incubo. Già è diventata più piccola perché incontri le persone per strada e tu parli di te. Cioè, loro ti parlano di te e alla fine non conosci mai più nessuno. Io sono l’argomento più noioso del mondo per me, ma è normale, come per chiunque altro.
Poi non è detto che io debba fare per forza solo concerti: preferirei allontanarmi da quella cosa lì ed eventualmente indagare di più il cinema o il teatro, o qualcosa che oggi non sappiamo ancora che cos’è e che magari invece domani ci vengono delle buone idee e capiamo che ci sono dei percorsi inediti che possono generare in me le ragioni per andare in una direzione lavorativa. Perché attenzione, la musica la farei comunque, non c’entra niente né il pubblico né il rapporto con me stesso. Mentre invece ciò che può diventare lavoro è importante che mi interessi, perché per fare un lavoro che non mi interessa ce ne sono di estremamente meno gravosi, estremamente meno pressanti psicologicamente».
Un caso di questo tipo è la colonna sonora de Il regno animale, che ti ha portato anche a vincere un Cèsar?
«Esatto, quando ho lavorato a Il regno animale in realtà ero in stop, avevo promesso alla mia famiglia di non fare niente. Poi ho letto questa sceneggiatura e mi è piaciuta moltissimo e io lo volevo proprio fare. Non importa, non me ne fregava niente in quel momento se ci sarebbero stati soldi o conseguenze, non mi importava».
In certi brani del disco, mi vengono in mente Colpevole o Un momento migliore, sei molto severo con te stesso…ma hai un senso di colpa relativo al tuo essere artista?
«Soltanto di aver lasciato fraintendere il mio ruolo, di aver lasciato fraintendere che io sia un artista, ma non lo sono per niente. Te lo giuro, non lo sono affatto, non c’è nessuna specificità collaterale che mi possa definire in quel modo. In generale però no, mi sento molto onesto da quel punto di vista e, anzi, credo che sia un atto di rispetto enorme non far finta che mi piaccia fare i concerti in questo periodo della mia vita. Io credo che l’onestà nello scambio sia sempre una virtù, anche quando qualcuno ti dice qualcosa che non ti fa piacere sentire.
Può essere che non faccia piacere a qualcuno sentire che non farò concerti, ma sarebbe molto peggio che io, con un sorriso stampato, dicessi “Non vedo l’ora di salire sul palco! Ciao Bologna! Evviva, sono contento di essere qui!”. Non lo posso fare perché non sono quel tipo di essere umano, ma soprattutto perché non ho quella capacità, io sono bravo a fare magari altri mestieri, ma non questo».
C’è qualcosa di Andrea Laszlo de Simone che non abbiamo ancora capito?
«Spero moltissime cose, perché non sono tanto generoso in questo. Preferisco mantenere la mia privacy e quella delle persone che mi circondano. Spero che non abbiate capito niente».
Cosa ti piacerebbe che rimanesse di questo disco in chi lo ascolta?
«Mi piacerebbe moltissimo che ognuno avesse un’opinione personale, estremamente personale, e che ognuno ci vedesse qualcosa di diverso, perché vorrebbe dire che allora è lo specchio che speravo di aver generato».