Il conto? Lo paghi coi tuoi dati (anche sanitari). Dagli hotel ai fondi pensione, chi punta sullo scambio e chi ci guadagna

C’erano una volta le vecchie, sporche banconote. I loro equivalenti per versare somme più ingenti al fornitore di turno, gli assegni. O l’evoluzione «plastificata» da estrarre fieri, le carte di credito. Per chi naviga l’epoca liquida dell’iper-digitale, già il passato. Eppure anche chi crede di avere il futuro in tasca pagando la spesa o l’idraulico con un tocco di cellulare rischia di ritrovarsi presto consegnato alla storia. Perché nel futuro cui lavorano sempre più aziende mondiali a cambiare non è lo strumento con cui si effettua un pagamento, ma la moneta stessa di scambio: non più denaro, ma dati. È la nuova frontiera della data economy, in cui siamo già entrati con tutte e due le gambe magari senza saperlo. Fin qui hanno usato quella leva per estrarre dati personali a go-go su ognuno di noi – per lo più passivi e inconsapevoli – le grandi corporation del digitale: Meta, Apple, Google, Amazon, Netflix e così via. Scrolla, divertiti, guarda un film, ascolta musica o fai shopping – è il messaggio implicito – che ai tuoi dati pensiamo noi. Nel senso di incamerarli s’intende, e usarli per progettare prodotti e servizi sempre più personalizzati, dunque «perfetti». Con lo sviluppo di machine learning e intelligenza artificiale d’altra parte analizzare grandi moli di dati ed estrarne così valore diventa ogni giorno processo più rapido, efficace e dunque conveniente.
Una notte per sognare (e vendere)
Che i dati siano il petrolio del secolo nuovo non è da tempo più un segreto, e il loro «fascino» sta anche in una considerazione basica: qualsiasi essere umano al mondo ne produce in continuazione, ne ha letteralmente da vendere. Mentre di denaro sonante da poter spendere, miliardi di persone al mondo ne hanno ben poco. Ecco perché a poco a poco la vendita di servizi in cambio non di soldi ma di dati – una possibile rivoluzione silenziosa – inizia fare la sua comparsa non solo nelle interazioni virtuali, ma pure nel mondo «reale». A fare da apripista in Giappone è dallo scorso anno un piccolo albergo il cui nome è tutto un programma: lo Sleep Lab Hotel. Il concept strappa un sorriso in Italia, ma non è nuovo da quelle parti: si tratta di un capsule hotel, una di quelle strutture che offrono a professionisti o turisti non una vera e propria stanza, ma un piccolo modulo in cui adagiarsi per dormire, qualche ora o tutta la notte. La novità dello Sleep Lab, aperto ad agosto 2024 davanti alla stazione Shinagawa di Tokyo, sta appunto nell’accordo che chi lo frequenta sottoscrive con l’hotel. Il prezzo medio praticato è decisamente low-cost per gli standard della capitale giapponese: 8mila yen, pari a circa 44 euro. Possibile? Sì, perché la seconda parte della tariffa chi vi pernotta la paga in natura. Col proprio corpo, letteralmente. Durante le ore di sonno entrano infatti in azione nella capsula una telecamera a raggi infrarossi e un microfono direzionale sopra le teste dei clienti, e un sensore incorporato nelle lenzuola del letto. Col consenso dell’interessato, vengono così misurate le ore di sonno, la durata dei diversi cicli, il numero di rivolgimenti e apnee, il battito cardiaco e il volume di eventuali russate. Dati che l’azienda madre – la NTT Data Japan che ha progettato l’iniziativa insieme alla catena di hotel Nine Hours – immagazzina per poi rivenderli ad altre compagnie interessate. Quanto ai clienti, oltre alla garanzia dell’anonimato su ogni dato sanitario raccolto, possono poi essi stessi ottenere un report personalizzato sulla qualità del proprio sonno.

Dati al posto del lavoro?
Il gioco vale la candela? Chi «vince» in questo scambio che in qualche caso può fare venire i brividi? E con quali conseguenze? La risposta è strettamente soggettiva, ma di certo domande del genere saranno sempre più al centro dell’economia di domani. E a dimostrarlo è il fatto che a ragionare su scambi «in natura» del genere siano anche attori ben più vicini a noi, in senso geografico e mentale: nella Vecchia Europa e nell’economia tradizionale, addirittura para-statale. Proprio in questi mesi infatti il Fondo pensioni di un importante Paese europeo sta studiando un’offerta inedita. Di fronte ai casi sempre più frequenti di lavoratori che per inizi complicati sul mercato o interruzioni di carriera faticano ad arrivare a mettere da parte il monte contributi sufficiente per vedersi erogare una piena pensione, l’idea è quella di offrire a chi lo vorrà di «ripianare» la differenza cedendo al Fondo una parte dei propri dati personali. Quali, quanti e per quale valore, sono tutti parametri attualmente in fase di studio, ma la direzione è tracciata. A raccontarlo nel corso di un dibattito al Circolo dei Lettori di Torino dedicato alle Big Tech e alle trasformazioni dell’economia globale è stato il docente di filosofia teoretica Maurizio Ferraris. «Mentre in Giappone si realizzano progetti del genere, noi europei siamo ossessionati dai consensi alla privacy», ha graffiato con una battuta il filosofo.

Governi e Big Tech, l’ora delle scelte politiche
A invitare a scrollarsi di dosso vincoli pregiudiziali per giocare a viso aperto la partita dei dati, un po’ a sorpresa, è pure un’economista «alternativa» come Loretta Napoleoni. Se i dati sono già oggi una fonte di ricchezza formidabile per le grandi aziende del Tech, la soluzione non è provare a rifugiarsi in un passato che non c’è più, piuttosto riappropriarsene, ha spiegato Napoleoni in uno degli ultimi incontri del Festival del Classico chiusosi ieri a Torino. Sia ciascuno di noi in scienza e coscienza, altrimenti detto, il padrone dei propri dati: sapendo su quali può contare, quanto valgono sul «mercato dei dati», potrà scegliere il cittadino-consumatore quali e quanti venderne e a chi. Meglio una cessione consapevole che una inconscia, se non estorta. Tutt’altro che scolastico, il tema è politico, perché riguarda le scelte pubbliche, e l’allocazione delle risorse. «Perché anziché investire 800 miliardi nel riarmo d’Europa l’Ue non ne investe altrettanti per realizzare una blockchain in cui vengano raccolti organicamente tutti i dati sanitari di ogni suo cittadino dalla nascita alla morte, che ciascuno possa poi “amministrare” in piena padronanza?», ha chiesto provocatoriamente l’economista. Domande per Domani. Con la D maiuscola.
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