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Roberto Cotroneo: ripartire dai giovani e dalle biblioteche nei quartieri – L’intervista

27 Dicembre 2018 - 19:31 Chiara Piselli
Lo scrittore a OPEN: "Leggere serve a vivere meglio. La lettura non è uno sfoggio di cultura. La lettura è un paio di scarpe che ci mettiamo per non farci male quando camminiamo per strada. Questo bisogna raccontare ai ragazzi"

I tic del mondo dell’editoria, le abitudini di lettura degli italiani, la necessità di ripartire dalle nuove generazioni e di diffondere i libri nelle scuole, nelle biblioteche, nei quartieri. Di questo, e molto altro, OPEN ha parlato con Roberto Cotroneo, romanziere, saggista e fotografo, tra i protagonisti della vita culturale italiana di questi anni. “Niente di personale”, il suo ultimo lavoro ora nelle librerie. 

 

Parliamo dell’abitudine alla lettura. Il basso indice di lettura resta il problema principale.

 

Il vero nodo cruciale è la scuola. Non arrivi a sviluppare l’abitudine alla lettura se non da piccolo. Manca una seria e reale riforma della scuola. La lettura non è una cosa naturale, è una cosa che si insegna. Al punto tale che tu puoi tranquillamente stare per tutta la vita senza leggere un libro (anche se è una cosa tristissima), ma la lettura è un concetto culturale, non un concetto innato. L’abitudine alla lettura si acquisisce soltanto con un lavoro profondo, e questo lavoro profondo potrebbe venire dalla famiglia, ma dovrebbe invece essere sviluppato dalle istituzioni come la scuola. Perché si va a scuola? Si va a scuola per farsi una cultura. Come si diceva un tempo.

 

Guarda il video: 

 

Allora di chi è la colpa?

 

La colpa è di tutti noi. Io quando vado a presentare i miei libri in giro per l’Italia ho posto questa condizione all’organizzatore: di poter andare almeno due ore a parlare nelle scuole. Ma non a parlare del mio libro, non devo venderlo agli studenti ovviamente. Ma a parlare loro di cose che so. Io l’ho fatto qualche volta e ho visto che i ragazzi ascoltano con un’attenzione profondissima. Se ogni scrittore come me avesse voglia di fare degli incontri con gli studenti, con i giovani dai 12 ai 18 anni, secondo me sarebbe una grande cosa. Non possiamo continuare a pensare che il nostro ruolo di intellettuale sia solo il ruolo di dovere andare in televisione a presentare i nostri libri con una nota di narcisismo.

 

Quindi?

 

Quindi è necessario un moto etico da questo punto di vista. E bisogna prendersi la responsabilità di quello che siamo e dei privilegi e le fortune che abbiamo avuto. Perché, altrimenti, chi pensa alle giovani generazioni?

 

Non bastano i professori?

 

Ti dico sinceramente che gli insegnanti hanno bisogno di aiuto. Hanno bisogno di persone che li aiutino a capire meglio come fare, come comportarsi con gli allievi. Questa è una cosa di cui dovremmo farci carico noi. 

 

E se le chiedessero “Perché dovrei leggere”?

 

Perché leggere serve a vivere meglio, direi. C’è da pagare le bollette, c’è da capire le persone che hai di fronte, c’è da orientarsi nel mondo. Non è che la lettura è uno sfoggio di cultura. La lettura è un paio di scarpe che ci mettiamo per non farci male quando camminiamo per strada. Bisogna raccontare agli allievi queste cose.

 

Se leggere serve a vivere meglio, perché questo concetto non attecchisce anche al Sud? Il divario resta alto nell’abitudine alla lettura.

 

Questo è interessante. Io sono un uomo del Nord con genitori del Sud, quindi ho un forte legame con il Sud. Quando vado lì a presentare i libri trovo tantissime persone tra il pubblico. Questa cosa è curiosa. Perché io so perfettamente che il mercato dei libri al Sud è infinitamente più debole rispetto a quello di Toscana, Lombardia e Veneto. Però il Sud ha ancora delle fasce culturali importanti.

 

E perché non accade?

 

Intanto perché sono più poveri. Serve un lavoro importante e profondo. Se fossi un ministro, la prima cosa che farei sarebbe un lavoro serissimo sulla ricostituzione delle biblioteche pubbliche sul territorio, soprattutto biblioteche di quartiere, grandi centri di aggregazione. Perché non sta scritto da nessuna parte che leggere significa andarsi a comprare dei libri. I libri si leggono dove ci sono, dove non ci sono non li puoi leggere. Bisogna rimboccarsi le maniche e cominciare col capire che leggere non significa comprare libri. Leggere vuol dire anzitutto avere la possibilità di leggere. Quindi ci devono essere i libri nelle scuole, nei quartieri, nelle biblioteche. Servirebbe veramente un grande lavoro collaborativo.

 

Perché da noi si legge meno che negli altri paesi come Francia e Germania?

 

Il problema è che ci siamo distratti tanto. Viviamo di rendita e di luoghi comuni. Riccardo Muti raccontava una storia bellissima: “noi abbiamo la nomina di essere il paese del bel canto, della tradizione musicale, della lirica, con Verdi e Puccini. Non è vero! Basta andare ad ascoltare come cantano nelle chiese italiane e poi come cantano in una chiesa tedesca. È un altro mondo”. Con questo intendo dire che noi siamo pieni di luoghi comuni. Siamo il paese di Dante, Petrarca, Leopardi e Manzoni, il paese del Rinascimento, di Lorenzo il Magnifico, di tutta la grande arte. Ma questo non ti fa vivere di rendita, tutto ciò va trasmesso. È da qui che bisogna cominciare.

 

Cosa ne pensa del ritardo dell’Italia sugli audiolibri?

 

Secondo me è collegato al fatto che leggiamo poco. Una volta, quando questo paese era più legato a una cultura letteraria e di scrittura forte – prima che si perdesse dagli anni ’70 in poi – c’erano i radiodrammi. Alla radio venivano letti romanzi da alcuni attori, esattamente come gli audiolibri di oggi. Ed era una cosa che aiutava molto la nuova generazione che, per quanto non fosse più analfabeta, non aveva comunque dimestichezza con una lettura che poteva stancare.

 

Cosa ne pensa della graphic novel?

 

Penso tutto il bene possibile. Trovo che ci siano delle cose bellissime. Che sia un genere che unisce naturalmente la visività con la narrazione. Cosa che funziona molto bene. Non dimentichiamo che la letteratura è stata molto massacrata dal cinema. Non c’è dubbio alcuno. Il film è un cerchio che si chiude in due ore. Il libro ti costringe a confondere e mescolare l’esperienza narrativa con l’esperienza di vita quotidiana di giorni e settimane. Il libro accompagna quell’arco di tempo. Noi non siamo più abituati. Dobbiamo visivamente colmare l’esigenza di narrazione con un prodotto che abbia un inizio e una fine nel giro di poche ore. Dunque cambia il modo di scrivere degli autori e ci sono molti più libri da 130 pagine.

 

Questa la ragione del successo dei gialli?

 

Il giallo è un sistema semplice di narrazione molto simile al cinema. Al punto tale che nessuno più distingue il Camilleri film dal Camilleri opera scritta. Siamo pieni di libri che hanno una linearità che è simile a quella del cinema. Il cinema non solo influenza le nostre strutture narrative, ma influenza anche gli autori. Se passiamo la vita a guardare film poi scriviamo con una struttura narrativa che finisce col somigliare molto a una sceneggiatura.

 

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