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Se non pensa ai giovani e al futuro, il sindacato muore

08 Febbraio 2019 - 23:07 Francesco Seghezzi
Il sindacato è destinato a scomparire? Non possiamo augurarcelo. I cambiamenti del lavoro in corso negli ultimi decenni sembrano chiamare a gran voce la sua presenza

Sono tornati. Dopo mesi nei quali il loro spazio nel dibattito pubblico è stato più o meno nullo, e a due mesi dalla Legge di Bilancio, i sindacati scendono in piazza. Vedremo quanti saranno ma, numeri a parte, resta un fatto importante. Importante perché nell'epoca della disintermediazione, della rete e delle piattaforme come strumento di relazione tra leader e popolo, delle dirette Facebook senza filtri sugli smartphone di ogni cittadino, il ruolo di chi si presenta come corpo intermedio è quantomeno curioso.

E che si sia scelta la forma della manifestazione unitaria, in un Paese nel quale le caratteristiche dei singoli sindacati marcano spesso le differenze con gli altri, è segno dell'importanza del momento. A maggior ragione di fronte a una opposizione assente da mesi tanto che la manifestazione di oggi potrebbe preoccupare il governo, se si rivelasse particolarmente partecipata.

I temi che hanno portato i sindacati in piazza sono tanti e possono essere riassunti in una netta critica alle politiche del governo che più che sbagliate vengono considerate insufficienti o fuori rotta. Più o meno quello che sostiene l'opposizione ma senza particolare successo nel mutare l'andamento dei sondaggi e, si presume, del consenso popolare. E il governo sembra non interessarsi delle critiche dei rappresentanti dei lavoratori se, come ha sarcasticamente notato il neo-segretario della CGIL Maurizio Landini, preferisce incontrare i gilet gialli d'oltralpe che, proprio come i sindacati italiani, manifestano contro il governo.

Ed è proprio qui la sfida di oggi. Il sindacato ha l'onere di dimostrare che ha ancora un ruolo nel conoscere e rappresentare i bisogni dei lavoratori. In un clima politico dove tutto si gioca su comunicazione e intercettazione rapida del consenso conta solo questo. Senza una legittimazione popolare il sindacato, pur mantenendo un ruolo fondamentale dal punto di vista teorico, non verrà coinvolto se non in misura marginale nei dossier più importanti del governo. E un sindacato non può accontentarsi di essere ricevuto, sarebbe una autocondanna.

Ma i dati non giocano oggi a favore del sindacato, almeno a livello nazionale. Pur tenendo botta rispetto a molti paesi occidentali e rimanendo ai primi posti in Europa, il tasso di rappresentatività (il numero di iscritti al sindacato sul totale dei lavoratori dipendenti e dei pensionati) del 34% (dati OCSE al 2016) è molto inferiore al 50% dalla seconda metà del 1978. Ma soprattutto l'Inps ha mostrato che più del 40% degli iscritti è composto da pensionati, con una percentuale crescente. Segnale che la difficoltà ad intercettare i bisogni dei giovani è altissima. Lo dimostra la sostanziale approvazione di Quota100 e l'aver smesso di parlare del futuro previdenziale degli under 40.

Le cause sono moltissime e ampiamente studiate: dai mutamenti della struttura produttiva, con una netta riduzione della componente operaia nel mercato del lavoro, la nascita di nuovi lavori in cui il sindacato non riesce ad attecchire, il venire a meno di un legame con i grandi partiti del dopoguerra, fino alla difficoltà ad incidere su processi economici sempre meno nazionali. Ma soprattutto il generale clima di sfiducia, soprattutto nelle generazioni dei nati dagli anni Ottanta in poi, verso le vecchie forme di rappresentanza.

Il sindacato è dunque destinato a scomparire? Non possiamo augurarcelo. I cambiamenti del lavoro in corso negli ultimi decenni, l'aumento della complessità dei sistemi produttivi e della struttura economica e la crescita del disagio sociale, delle disuguaglianze e del lavoro povero sembrano chiamare a gran voce la sua presenza. Se ne parla poco ma il coraggio di numerosissimi accordi sindacali nelle imprese ha avuto un ruolo fondamentale nel rendere le conseguenze della crisi meno pesanti di quanti già fossero.

Sappiamo che la frammentazione dell'economia e del lavoro a cui stiamo assistendo sarà difficilmente affrontabile con soluzioni calate dall'alto e uguali per tutti. Per cui la sfida è tutta nelle mani delle organizzazioni sindacali stesse che hanno il compito di cogliere le dinamiche di cambiamento e rappresentarle. A partire dalla dimensione territoriale e da quella delle singole aziende, avvicinandosi sempre di più ai bisogni spesso inespressi. Le organizzazioni confederali oggi appaiono deboli e troppo pesanti per gestire con la necessaria agilità i processi che dovrebbero governare.

Occorrerebbe riscoprire di più la centralità delle singole professioni, riscoprendo la dimensione originaria del sindacato di mestiere che oggi potrebbe rappresentare forse meglio i singoli bisogni e non lasciarli alla dimensione individuale, restituendo la forza di una struttura collettiva. Questo non vuol dire svuotare il ruolo delle sigle confederali, ma spingersi sempre di più verso un modello sussidiario. Nulla di nuovo per un sindacato, si tratta semplicemente di tornare alla sua origine. E tutti, a partire dai giovani, potrebbero trarne beneficio.

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