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Quanto è forte e quanto è debole il Movimento 5 Stelle?

26 Febbraio 2019 - 06:36 Enrico Mentana

Si sa: il M5s è un movimento di opinione, non una forza strutturata sul territorio. Da quando è nato è sempre andato benissimo nel voto politico, ebbe all'inizio una grande affermazione alle regionali in Sicilia (le uniche gestite in prima persona da Beppe Grillo, con una campagna elettorale memorabile, aperta dalla traversata a nuoto dello stretto di Messina) ma non è mai più riuscito a esser competitivo in nessun altro appuntamento regionale. E così è stato anche nel voto locale, a parte le grandi occasioni in cui la corsa per le città assumeva un valore più politico che amministrativo, Roma, Torino, Livorno.

Nella storia italiana non c'è mai stata una forza così forte in parlamento e così più debole nel voto locale. Incrociando, e accelerando con la sua azione la crisi del berlusconismo e della sinistra, il M5s ha avuto due risultati impensabili alle elezioni politiche: il 25% nel 2013 e il 32% l'anno scorso. È riuscito a diventare la prima forza del parlamento italiano e a guidare il governo. Per farlo ha scelto l'alleato con più punti in comune, la Lega, e il consenso al governo resta maggioritario nove mesi dopo la sua nascita. Ma nel frattempo quel governo ha di fatto cambiato socio di maggioranza: in tutti i sondaggi nazionali e in tutte le varie elezioni regionali, dal Friuli Venezia Giulia fino alla Sardegna la Lega è stata davanti al M5s, e per di più sempre alleata con Fi e FdI, due partiti ostili al Movimento.

Voto dopo voto Di Maio e i suoi hanno avuto conferma del fatto che la spinta propulsiva di una grande forza di opposizione sistematica si fa molto più debole quando quella forza si identifica col governo. Il suo alleato – più risoluto e scaltro nell'azione di governo, come è stato evidente nel caso emblematico della nave Diciotti – cannibalizza i consensi facendo il pieno dei voti di pulsione: sicurezza, sovranismo, fermezza sui migranti. Al M5s restano le bandiere di sempre, quelle che sventola dai suoi esordi parlamentari: onestà e reddito di cittadinanza. Nel momento in cui però il reddito diventa una promessa in via di realizzazione, esso non è più la carta che fa vincere le elezioni. È come se tra gli elettori si avvertisse un vuoto: cosa c'è dopo? Ora che governate, accanto a uno scaltro e capace, che prospettiva, che obiettivo indicate? (È successo anche a Renzi con gli 80 euro e il conseguente trionfo elettorale, giusto cinque anni fa: ganzo, e cosa c'è dopo?).

L'innegabile tonfo in Sardegna, tre elettori su quattro persi in in anno, dice questo, ma anche un'altra verità: che il Movimento 5 stelle non è visibile sul territorio, non ha sedi fisiche, non condivide a sufficienza la prossimità, e la rotazione dei suoi eletti non aiuta il radicamento. Per questo la prima mossa di Di Maio per correre ai ripari sarà la riforma organizzativa che strutturerà il M5s un po' più come un partito, ed eliminerà di fatto il limite dei due mandati. L'alleato Salvini garantisce lealtà, la crisi perdurante del Pd permette di non temere assalti a breve, e la navigazione del governo potrebbe durare davvero ancora quattro anni. Ma è  chiaro che un po' del destino del M5s si gioca già tra tre mesi esatti, il 26 maggio con le elezioni europee. Un voto d'opinione puro, col sistema proporzionale, che sarà come un grande sondaggio nazionale. Per tutti ma soprattutto per un movimento la cui sorte da sempre viene raccontata con due esiti favolistici opposti: l'happy end e la fine dell'incantesimo.

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