Nei ghiacciai i segni dell’attività nucleare: sciogliendosi rilasciano sostanze radioattive

A causa del riscaldamento globale i ghiacciai stanno accelerando il loro scioglimento. Ora possiamo monitorarlo anche attraverso il rilascio delle sostanze radioattive che hanno assorbito durante i test nucleari e gli incidenti nelle centrali: ma questo fenomeno non rappresenta un concreto pericolo per la nostra salute

Non è la prima volta che gli effetti dei cambiamenti climatici si manifestano nel Polo Nord e in altre aree ghiacciate del mondo, con ripercussioni anche nel Mediterraneo. Per via di queste e altre dinamiche i ghiacciai finiscono per assorbire anche altri segni dell’attività umana, compresa quella nucleare. Sono questi i risultati della ricerca condotta da un team internazionale presentati all’assemblea generale della European Geosciences Union (Egu), tenutasi a Vienna dal 7 al 12 aprile. Lo studio è stato svolto anche con la collaborazione dei ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca.


I segni dei disastri nucleari come quelli di Chernobyl e Fukushima non si vedono solo nei ghiacci artici, come confermano i rilevamenti svolti in 17 siti glaciali nel Polo Sud, in Islanda, nelle Alpi europee e altre regioni del Pianeta, con misurazioni in cui sono stati rilevati livelli di «radionuclidi di fallout» (FRNs) superiori alle zone della Terra prive di ghiacciai. I radionuclidi sono isotopi radioattivi che possono derivare tanto dalla natura, quanto da attività umana. Quelli di cui tratta lo studio sono riconducibili agli incidenti e test nucleari avvenuti da quando abbiamo imparato a usare l’energia atomica. Questi si trovano nei sedimenti superficiali di diversi ghiacciai. A fungere da spugna è soprattutto la «cryoconite», uno strato polveroso che si deposita sulle superfici di calotte polari, ghiacciai e neve; può contenere particelle di roccia, fuliggine e microbi.


A Vienna gli esperti hanno discusso di come gli ambienti ghiacciati possano assorbire e immagazzinare vari elementi contaminanti, sia da fonti locali che dal resto del mondo. Il problema sta nel fatto che il riscaldamento globale con il conseguente scioglimento dei ghiacciai sta portando anche a un progressivo rilascio di tali sostanze. Secondo una delle ricercatrici dello studio, la dottoressa Caroline Clason dell’Università di Plymouth (Regno Unito), non dovremmo circoscrivere la ricerca ai soli effetti diretti sulla salute umana dell’attività nucleare, prestando attenzione anche agli ambienti ghiacciati.

La ricerca sull’impatto degli incidenti nucleari si è precedentemente concentrata sui loro effetti sulla salute umana ed ecosistemica nelle aree non glaciali. Ma stanno aumentando le prove sul fatto che la crioconite sui ghiacciai possa accumulare in modo efficiente i radionuclidi a livelli potenzialmente pericolosi. Concentrazioni molto elevate di radionuclidi sono state riscontrate in numerosi recenti studi sul campo, ma il loro preciso impatto deve ancora essere stabilito.

Esiste un pericolo concreto di questo rilascio di sostanze?

Abbiamo chiesto un parere al fisico Enrico DʼUrso, specializzando in fisica biomedica presso l’Università di Torino, che ha spiegato a Open perché non dobbiamo preoccuparci, mentre invece potremmo avere degli strumenti in più per monitorare il progressivo scioglimento dei ghiacci dovuto al riscaldamento globale.

Quali sono le reali implicazioni di questa ricerca?

«In tutta la natura possiamo trovare sostanze radioattive. Non parliamo solo del Carbonio 14, c’è anche il Potassio 40 per esempio, quello delle banane: sono i radionuclidi più presenti naturalmente. Il C14 ha una vita media bassa ed è continuamente prodotto dai raggi cosmici che si imbattono nell’atmosfera terrestre. Il K40 invece ha vita lunga. Oltre a questi e ai “figli dell’uranio” in natura non dovremmo vederne altri. L’attività nucleare invece aggiunge queste dispersioni di radionuclidi, quindi si possono misurare le attività ambientali per vedere anche la dispersione degli inquinanti. La dispersione tramite le bombe o gli incidenti nelle centrali nucleari, per non parlare della fuga di iodio registrata tempo fa dovuta a un impianto per la produzione di radio-farmaci, e siamo riusciti a tracciarne l’origine tramite le correnti, trovando i colpevoli».

Dobbiamo preoccuparci della dispersione di queste sostanze?

«Essendo gli eventi di rilascio puntuali (un incidente nucleare, un test atomico in atmosfera), c’è una certa quantità di radionuclidi che, dopo essersi accumulata nel ghiacciaio, dovrebbe disperdersi gradualmente. Andando a misurare la quantità di radionuclidi nelle acque di scioglimento, si potrebbe quindi stimare con un nuovo metodo la velocità di scioglimento dei ghiacciai. In ogni caso il pericolo per la salute dipende dalla concentrazione». 

«Ad Alessandria un collega aveva fatto uno studio sulla radioattività dei vini, vedendo – tramite una precedente ricerca francese – la possibilità di riconoscere tramite la radioattività la provenienza di un vino. Ad esempio, avremmo potuto capire se un vino presentato come Barolo era invece un Barbaresco. Il terreno dei vitigni infatti non è ovunque uguale, ma differisce anche per le quantità microscopiche di radioattività. Purtroppo la ricerca fallì perché si concentrò sul Cesio137 (uno dei prodotti di fissione dell’uranio, il quale era presente in concentrazioni di millesimi di Becquerel, cioè migliaia di volte inferiore ai limiti di legge), il quale, secondo alcune ipotesi, verrebbe assorbito dalle foglie della vite e non dalle radici, vanificando i dati raccolti. Ricerche analoghe si sono però potute svolgere con successo sulla provenienza del Grana, usando però in questo caso tecniche di attivazione neutronica».

«Potete capire quindi quanto sia bassa la probabilità che questo rilascio di radionuclidi da parte dei ghiacciai, possa influire sulla nostra salute. Per l’acqua che arriva nelle nostre case esistono poi dei limiti, in base ai quali se si superassero i livelli di sicurezza si farebbe in modo che non raggiunga proprio l’acquedotto».

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