Sei soluzioni «scientifiche» contro i cambiamenti climatici

Il riscaldamento globale e i conseguenti cambiamenti climatici sono un dato di fatto. L’emergenza non è campata in aria e il tempo che ci resta per cambiare il nostro modo di vedere il progresso non è infinito. Tuttavia occorre riflettere attentamente sui pro e contro di almeno sei soluzioni che cominciano a emergere, per evitare di generare ulteriori problemi 

Mai come oggi le questioni legate all’ambiente e auno sviluppo sostenibile che generi un cambiamento di sistema, tale da renderlo più equo e meno dannoso per l’ambiente, sono stati tanto sentiti tra le generazioni più giovani, di cui certamente il fenomeno Greta Thunberg rappresenta una avanguardia importante, capace di andare oltre i confini degli Stati.


Le resistenze non sono poche, anche da parte di chi non mette in dubbio il riscaldamento globale e la sua origine umana. Non è facile trovare la ricetta giusta senza generare nuovi problemi, come avevamo vistonell’ambito del riciclo delle plastiche. Le fonti rinnovabili non sono disponibili in maniera continua e necessitano di apposite batterie per accumulare l’energia e rilasciarla in maniera ottimale, altro frangente piuttosto difficile.


Eppure esiste una urgenza che dovrà ispirare la ricerca e i legislatori al fine di trovare delle soluzioni, tanto più che secondo recenti studi il riscaldamento globale è legato anche alle disuguaglianze e all’aumento dei poveri nel Mondo. Infine, i cambiamenti climatici stanno portando a sconvolgimenti negli equilibri ecosistemici, tanto che recentemente si sta tornando a parlare della malattia di Lyme, ma è solo un esempio tra tanti, che non avrà effetti solo sugli animali.Rick Stafford e Peter Jones suggeriscono su The Conversation sei strategie per una possibile transizione. Non sembrano però di facile attuazione. Analizziamoli assieme, cercando di coglierne i pro e i contro.

1. Smettere di considerare il Pil una buona misura dei progressi di un paese

Sul Pil gli autori citano l’economista Kate Raworth suggerendo altri indicatori, come «l’indice di sviluppo umano» e «l’indicatore di progresso genuino», valutando i profitti economici, sociali e ambientali. Sicuramente il Pil non può essere considerato il solo indice del benessere di un paese, tuttavia tutti gli altri «profitti», come quelli ambientali, comportano dei costi,e un Pil più basso non sarebbe d’aiuto.

Ciò che invece occorre capire è come redistribuire la ricchezza in ragione dei vantaggi sociali e ambientali. Citiamo il decano dei divulgatori italiani Piero Angela, intervistato recentemente dal HuffPost:

La ricchezza inizia a nascere quando entrano delle ruote che girano: prima nei campi, poi nelle officine e nella società. Questa è la macchina della ricchezza, la politica la distribuisce e basta, non ne ha mai prodotta in tutta la storia dell’umanità. Alla maggior parte delle persone questo aspetto propulsore della società sfugge.

2. Trasformare i prodotti inquinanti in beni di lusso

Secondo gli autori aumenti generici nelle tasse generano solo diseguaglianze, come quelle sui carburanti che hanno portato alle proteste dei Gilet gialli in Francia. Dovrebbero invece essere aumentatei in maniera considerevole i prezzi di tutti i prodotti inquinanti, trasformandoli così in beni di lusso «ciò includerebbe viaggi aerei, combustibili fossili e carni rosse».

Questo è il punto che lascia più perplessi, anche perché ci sarebbe una conseguente riduzione di mobilità delle persone, mentre invece tanto si potrebbe fare denunciando gli sprechi e multando chi li produce, visto che logicamente chi possiede più risorse tenderà a generare maggiori sprechi, pagando in proporzione.

Sulle carnirosse è comprensibile il collegamento con gli allevamenti intensivi e il loro impatto ambientale:tuttavia dobbiamo pensare anche ai problemi legati alle deficienze alimentari, in corrispondenza didiete percepite più salutari e amiche dell’ambiente;ma anche la produzione di vegetali ha un suo impatto. In questo frangente molto può essere fatto nella ricerca sugli Ogm ​​​​ ​​e sulla carne sintetica.

3. Lavorare di meno

Certamente meno ore di lavoro significherebbero anche più tempo libero e meno inquinamento, ma anche meno reddito, cosa che però non sembra preoccupare gli autori, in quanto «la riduzione del reddito delle famiglie significa anche minori opportunità di sovra-consumo di beni “di lusso” che guidano la crescita economica senza aggiungere molto valore alla società». Si parla anche di un «reddito universale».

Tutto questo però non è detto che funzioni, l’economia non è una scienza esatta e c’è anche chi ritiene – datialla mano – che soluzioni del genere potrebbero rivelarsi peggiori del male. In un articolo pubblicato nel 2008 da Pierre Cahuc e Andre Zylberberg della Sorbona di Parigi, si mostra come «le riduzioni obbligatorie nelle ore standard possono aumentare l’occupazione solo se la compensazione salariale è sufficientemente bassa».

Sulla questione del «reddito universale» che magari dovrebbe fungere da supporto ad una riduzione sostanziale del tempo lavorativo, abbiamo altri problemi di sostenibilità che nemmeno un aumento dell’automazione potranno risolvere.Torniamo sempre al problema iniziale: da dove viene la ricchezza e come viene distribuita.

4. Pensare a livello locale

Basandosi su una ricerca sulla pesca costiera gli autori generalizzano il discorso a tutti i «processi localizzati», in quanto «possono essere anche più rispettosi dell’ambiente (…) aumentando la sicurezza alimentare nei paesi in via di sviluppo».Il problema è quanto ci costa pensare localmente.

Pensiamo solo ai falsi miti sul cosiddetto «chilometro zero»: in che modo «locale» si tradurrebbe anche in minore impatto ambientale? La semplice analisi dei chilometri percorsi dalle merci, deducendo quindi un maggiore impatto ambientale per le distanze più ampie, non è necessariamente valida.

Come ricorda il divulgatore Dario Bressanini su le Scienze, citando un importante studio britannico, circa il 48% del percorso è a carico dell’acquirente, sarebbe quindi preferibile il classico supermercato centralizzato.

La grande distribuzione, continua il rapporto britannico, trasporta in modo più efficiente le merci, utilizzando meno autoveicoli pesanti al posto di un numero più elevato di veicoli più piccoli meno efficienti che verrebbero utilizzati da un sistema distributivo non centralizzato.

5. Far conoscere la Natura nelle scuole

Su questo punto ci sono pochi dubbi. Educando fin dallascuolaad un maggiore rispetto dell’ambiente e a un uso più parsimonioso delle risorse, praticando ancheil riciclo, avremmo senz’altro dei giovamenti nel lungo periodo.

6. Non fare affidamento solo sulla tecnologia

Anche l’impiego di tecnologie alimentateda energie rinnovabili ha un costo ambientale, essendoci un processo industriale dietro la loro produzione. Il progresso tecnologico quindi dovrebbe andare di pari passo con un cambiamento del proprio stile di vita. Non di meno, proprio la tecnologia nel lungo periodo potrà dare un supporto notevole, anzi decisivo, in tutti ipunti presentati dagli autori.

La ricerca nel campo dell’Intelligenza artificiale e un maggiore accesso all’istruzione sembrano destinarci a un futuro in cui il lavoro riguarderà soprattutto gli ambiti scientifici, oltre a tutti quei servizi che richiederannoancora un vero cervello pensante. L’Ia infatti ha anche dei limiti di cui dovremo tenere conto. Anche dal punto di vistadella gestione senza sprechi delle risorse rinnovabili nelle città, la tecnologia sarà sempre più indispensabile, come ad esempio nell’ambito delle Smart city.

Sono stati commessi tanti sbagli che ci hanno portato alla situazione di crisi economica e climatica attuale, ma forse sarebbe un errore ancora più grave demonizzare il progresso e la tecnologia, a caccia di soluzioni drastiche e ancora controverse.

Foto di copertina: Wikipedia/Greta Thunberg.

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