«Consigli per essere un bravo immigrato». Il libro provocazione della scrittrice Elvira Mujčić – L’intervista

«All’immigrato viene richiesto di raccontare storie dolorose a comando». Nel suo libro la scrittrice nata in Bosnia immagina un dialogo, un incontro tra lei e un ragazzo di nome Ismail. Un viaggio tra le peripezie della burocrazie e gli stereotipi che bisogna assecondare per essere un “buon immigrato”

Cosa fa dell'immigrato un bravo immigrato? Quanto siamo disposti a vedere l'altro, che in questo caso diventa lo straniero, come un essere umano e non come il prodotto di una guerra? Se lo chiede Elvira Mujčić nel suo ultimo libro edito da Elliot. La scrittrice di origine bosniache affida queste domande alla storia di Ismail e alla sua lotta contro la burocrazia..


Ismail viene dal Gambia, è un ragazzo integrato che ha imparato l'italiano, segue le regole del centro di accoglienza, ma per togliersi di dosso l'etichetta eterna di un disperato ha bisogno del riconoscimento di una commissione territoriale, una giuria che dovrà decidere se nella sua vita ha provato abbastanza dolore per poter essere accolto in un Paese e ottenere una protezione internazionale.


Le vicende di Ismail si intrecciano a quelle di Elvira, anche lei profuga, sfuggita alla guerra nei balcani, che però è riuscita "nell'impresa" di integrarsi. Ismail la vede a un convengo e allora le chiede: «Voglio lezioni su come essere un immigrato di successo». Le due vite, così diverse, ma dal vissuto così simile si intrecciano nel tentativo di entrambi di trovare chi sia pronto ad ascoltare le storie rispettando il loro pudore e la loro intimità. A parlarne a Open è la stessa autrice che è arrivata in Italia negli anni '90 quando appena adolescente ha dovuto lasciare la Bosnia per sfuggire al conflitto dei balcani.

«Consigli per essere un bravo immigrato». Il libro provocazione della scrittrice Elvira Mujčić - L'intervista foto 1

 

Da dove nasce l'idea del libro?

«A un certo punto, pur avendo avuto un'esperienza di immigrazione in Italia, scopro l'esistenza delle commissioni territoriali. Vado ad approfondire di che cosa si tratta e mi rendo conto che un immigrato per avere un permesso, una protezione internazionale o un asilo deve raccontare la sua storia e deve poi rimettersi al giudizio della commissione la quale deciderà se la sua storia è vera, secondo criteri decisi dalla commissione stessa.

Decideranno se è abbastanza compatibile con le idee già costruite di come dovrebbe essere. Questa storia mi ha colpita molto perché mi è sembrata simile a quello che succede agli scrittori quando propongono i loro libri alle case editrici. Mi è sembrato inoltre estremamente surreale il fatto che tutta la tua vita dipenda da come sai raccontarla e da come sai rispettare alcuni stereotipi che ti si chiede di assecondare se sei un immigrato.

Per cui ho iniziato a cercare materiale, ho avuto la fortuna di poter usufruire dell'aiuto di alcune persone che lavorano vicino alle commissioni, e di altre, come avvocati e mediatori culturali che ruotano attorno alla preparazione di queste storie, aiutano gli immigrati a mettere per iscritto il loro vissuto. Ho voluto scrivere questi consigli per essere un bravo immigrato cercando di giocare un po' a livello ironico ma senza buttare tutto su una grande risata, perché se di una risata si parla è quanto meno amara».

Perché la scelta del nome Ismail?

«In realtà Ismail l'ho scelto sia per la simbologia che rimanda alla tradizione religiosa musulmana, e quindi alla fede del personaggio, che a quella cristiana dove Ismaele è uno dei figli di Abramo nato dalla schiava Agar, sia perché Ismaele è il protagonista di Moby Dick: lo straniero sradicato per eccellenza. Mi sembrava forte come paragone».

Quanti Ismail hai icontrato nella tua vita?

«Ne ho incontrati tanti, alcuni di sfuggita, altri conosciuti meglio. altri hanno fatto parte della mia vita, di me anche, della mia famiglia, del Paese dal quale provengo. Certe storie che sembrano lontane non lo sono, magari sono solo più lampanti, ci sono molte vittime della burocrazia disumana che non deve per forza essere solo quella legata al migrante».

Nel libro parli di Srebrenica, da dove provieni. Perché secondo te l'asticella del dolore si sta alzando sempre più affinché una storia sia degna di essere ascoltata?

«C'è un'attrazione per il dolore e quello che in effetti a me preme spiegare è che non ho nulla in contrario al racconto di una storia dolorosa. So benissimo che chi emigra lo fa anche per motivi legati alla guerra e al tutto ciò che ne deriva. Ma quando la richiesta di un voyerismo del dolore è priva di empatia, di considerazione del lato umano, allora diventa in qualche modo davvero una sorta di mercanzia del dolore. A un certo punto del libro Ismail dice che la verità è per pochi e in effetti, la verità di quello che ciascuno di noi è e per pochi; non è facile raccontare delle storie così dolorose a comando.

Quando si tratta di immigrati sembra che debbano raccontare le cose peggiori, mettersi a nudo, che siano stupri o torture, come se non ci si rendesse conto che c'è un pudore, che c'è un'intimità nel dolore anche dove viene considerato di pubblico dominio.

Questa è in parte anche la mia esperienza; Vengo da Srebrenica alla quale viene spesso subito accostata automaticamente una richiesta di sapere quanto, quanto ho sofferto. È ovviamente un tema che mi tocca molto, provocandomi molta rabbia: ha avuto anche un ruolo importante nella scrittura del libro».

Un immigrato non può essere ricco, vestito bene, non può avere un cellulare. Perché?

«Questo è il grande problema dello stereotipo dell'immigrato, il grande problema del fatto che si pensa che un territorio sia nostro, che qualcuno abbia il diritto di venire soltanto se appartiene a dei criteri che noi abbiamo stabilito: è la questione delle questioni. Una persona può viaggiare liberamente o per forza deve avere un vissuto inimmaginabile per venire in un Paese? Ci sono immigrati che scappano dalle guerre, che sono profughi per un certo periodo e che non per forza devono mantenere questo stato per tutta la vita come se fosse una condanna dalla quale non si può mai più uscire.

Anche io sono stata una profuga, ma per fortuna ho avuto un'evoluzione, non sono rimasta profuga per tutta la vita. È una grande violenza quella che a volte ci costringe a rimanere bloccati per sempre: la migrazione è un'esperienza non è la caratteristica di una persona».

A chi è rivolto il testo?

«A chi probabilmente non lo leggerà. Non è rivolto a chi la pensa come me o a chi magari è razzista, e ovviamente non si metterà a leggerlo. Può essere rivolto magari a chi non prende in considerazione certe cose, certe sfumature. Quando si parla di immigrazione si alzano sempre i toni, se ne parla in un modo o nel modo opposto e non c'è quasi mai una riflessione vera, profonda.

Usiamo parole, come la commissione territoriale, ma sappiamo davvero che cosa accade in questi luoghi? Che cosa viene fatto. Un linguaggio che si utilizza per deumanizzare una questione ci dice tanto su come la affrontiamo. È un libro per chi, in maniera distratta, non si chiede e non si pone alcune domande che vanno al di là dell'immigrazione, del va bene o non va bene e vanno più in profondità: Il libro è soprattutto la storia di un incontro».

Perché la decisione di alternare la sua storia alla tua?

Volevo ci fosse un dialogo, una profondità temporale in questo racconto, una storia che non è solo di oggi. Quello che manca spesso nel racconto dell'immigrazione è una profondità temporale, si tratta sempre di un racconto emergenziale. Si dice che tutto accade oggi ed è sempre peggio oggi che ieri. Non penso che l'immigrazione sia qualcosa che ci accade oggi, è il destino umano da sempre.

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