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Cuperlo: «La Lega ha vinto parlando di sicurezza a un popolo impoverito. Ora la sinistra dia un’alternativa» – L’intervista

01 Giugno 2019 - 13:47 OPEN
Atteggiamento sovranista, identità nazionale, sicurezza e protezione in chiave reazionaria. Sono queste le strategie che, secondo Gianni Cuperlo, hanno portato la Lega oltre il 30% dei consensi

34%. La percentuale dei consensi raggiunta dalla Lega nelle ultime elezioni europee ha doppiato quella del il Movimento 5 Stelle, che con il 17% ha registrato il peggior risultato di sempre in una consultazione generale A porsi tra i due alleati di Governo è stato il Partito Democratico, che ha raggiunto il 22,7%, guadagnando 6 punti dalle ultime politiche. Gianni Cuperlo, membro della direzione del PD, ha parlato a Open delle ragioni del successo della Lega e delle colpe di una sinistra sempre più lontana dai territori e dai suoi abitanti.

Perché la Lega è riuscita a raggiungere un consenso così ampio?

«Per capire la radice del consenso della Lega dobbiamo capire cos’è oggi quella forza. La mia risposta è che la Lega di Matteo Salvini è il frutto di una strategia che ha trasformato una forza autonomista e anti-euro confinata al Nord, in un moderno partito nazionalista 2.0. Questa operazione è stata condotta con abilità da Salvini non in 6 mesi, ma in 6 anni, per tutto il periodo che lo ha visto segretario del suo movimento. Non siamo di fronte a un’operazione improvvisata, ma a una strategia ben precisa. E noi, come sinistra, per affrontare il nostro avversario dobbiamo capire prima di tutto chi sia e quale sia la sua cultura. Questa operazione di Salvini ha prodotto due effetti: per un verso ha restituito a lui e alla Lega una patente di novità. Come se la “bad company” di “Roma ladrona”, “forza vesuvio” e “abbasso i terroni”, fosse divenuta merce di un’altra epoca. Mentre la “new company” si presentava con i tratti della rivolta di popolo contro le élite ciniche. Che poi quel movimento avesse governato per circa 11 degli ultimi 25 anni, o che avessero rubato 49 milioni di soldi pubblici, erano “dettagli” che finivano per interessare solo gli addetti ai lavori. Per un altro verso, l’operazione costruita da Salvini gli ha aperto le porte che erano state precluse alla Lega al Centro e al Sud. Dove lui è sbarcato anche con l’appoggio di vecchi notabili locali, transitati da mille avventure, e che sono stati ben contenti e pronti nel cogliere l’attimo e salendo sul nuovo treno di passaggio. Questa però è solo la cornice, che va completata con un ultimo elemento: la Lega è oramai il partito più vecchio sulla scena politica italiana, che nell’arco di 30 anni ha selezionato e formato una classe dirigente. Lo ha fatto quasi sempre partendo dal piano locale, con amministratori, sindaci e assessori tecnicamente capaci che, al di là di qualche episodio grave (come negare la mensa a chi non paga la retta), hanno dato vita a una generazione di amministratori in grado soprattutto al Nord di raccogliere consennso».

Quali sono le carte che ha giocato Salvini oggi per raggiungere un consenso così elevato?

«Ci sono due aspetti centrali per capire a fondo le ragioni del successo di Salvini. Il primo è il profilo politico che lui ha scelto. La sua matrice sovranista, che ha esibito anche a Piazza Duomo il 15 maggio e che lo ha affiancato a Viktor Orbán e Marine Le Pen, con una chiara torsione reazionaria sul terreno dei principi e del linguaggio. L’altro aspetto è la capacità che ha avuto di cogliere dentro la crisi economica gli umori e i sentimenti più funzionali da cavalcare. Le paure di un pezzo grande di Paese. Qui la parola chiave per comprendere quello che è avvenuto è certamente il termine “sicurezza”, o “protezione”. Molti anni fa Giuseppe Dossetti, che è stato un grande intellettuale e uomo di fede, diede una definizione che a me sembra folgorante della radice e della matrice culturale di ogni destra autoritaria: quelle culture fondano il loro consenso su una iniezione di paura alla quale offrono un antidoto. In cambio, però, chiedono una quota di libertà. La Lega di Salvini ha declinato questo principio. Prendiamo per un istante il tema dei migranti. Il problema esista, ma la Lega ha sempre risposto rovesciando su di noi accuse insensate: «Loro vogliono accogliere tutti», dicono. Ma è una bugia. Loro parlano del barbaro alle porte per far scattare l’antidoto alla paura. Salvini tiene dei disperati in ostaggio in mare perché a lui serve dimostrare sul piano mediatico che il problema lo risolve. Ma anche questa è una bugia: in campagna elettorale aveva giurato 100 rimpatri al giorno, ma è fermo a una media di circa 18, come la nostra. Per mesi aveva denunciato la presenza di 600 mila irregolari, poi dalla sera alla mattina li ha ridotti a 90 mila. Propaganda pura, senza ancoraggio alla realtà. Poi certo che il problema esiste, c’è quando concentri disagio su disagio, quando in un condominio popolare il numero di chi viene da fuori altera l’equilibrio di prima, quando l’integrazione cessa di funzionare anche in ragione di tagli e cesoie su servizi e politiche di accoglienza. Non vedere questa realtà è un errore, ma la Lega non è la risposta, loro si limitano a cavalcare il problema in modo irresponsabile».

Perché il Movimento 5 Stelle, che era nato proprio in nome della lotta contro le élite, è stato scalzato dalla Lega?

«La risposta sta nelle cose, nella fotografia di un Governo che non c’è stato. Il Movimento paga un altissimo grado di inconsapevolezza e di impreparazione. Come se i 5 Stelle si fossero svegliati da un sogno per ritrovarsi dentro l’incubo di una realtà che non sono in grado di governare. Ma nemmeno la Lega sa farlo: è una bolla di promesse che non si sono realizzate e che hanno contribuito a portare l’Italia nella recessione».

Perché la sinistra non è riuscita a essere la risposta adeguata alle difficoltà dei cittadini?

«Premesso che io penso che da qui in poi inizi la sua fase di discesa, il motivo reale per cui per una fase la Lega può funzionare è perché la crisi ha fatto davvero molto male al ceto medio. E noi, la sinistra, siamo apparsi come coloro che, di fronte a un impoverimento diffuso e di massa, recitavano la parte degli ottimisti a prescindere. I dati sul Pil dei nostri governi ci davano anche ragione, se confrontati con la stagnazione di fatto di questo ultimo periodo. Ma il nostro messaggio di fiducia e ottimismo non incrociava più le condizioni materiali della vita delle persone. Tendevamo poi ad avere una certa concentrazione della nostra iniziativa sulle grandi città. Abbiamo lasciato troppo in ombra e sullo sfondo l’Italia nelle sue dimensioni locali, provinciali. E anche l’impatto della globalizzazione, alla fine, ha finito per restituire linfa alle paure di un’identità che si è sentita aggredita. Identità nei costumi, nello stile di vita, nelle relazioni sociali. In fondo, cosa aveva fatto il PCI nelle regioni rosse? Aveva certo issato la bandiera di un socialismo democratico. Ma soprattutto aveva garantito sicurezza. Aveva garantito una quota di benessere crescente per un numero altissimo di famiglie, assicurando insieme un senso di appartenenza e di coesione sociale. La Lega in molte realtà si è ritagliata lo stesso ruolo, ha costruito la sua identità su quella stessa base. E noi con il PD abbiamo finito a lasciare uno spazio vuoto che altri hanno riempito».

Quanta incidenza ha avuto il modello comunicativo adottato da Salvini? E come può la sinistra comunicare senza sfruttare il linguaggio populista?

«Nel discorso di insediamento di Donald Trump lui diceva in sostanza: “Oggi noi non trasferiamo il potere da un’amministrazione all’altra, ma da Washington al popolo, contro le élite che vi hanno tradito”. Salvini si è mosso in quel solco e ha capito che serviva un uso diverso della comunicazione in Tv, sui social network. E se ci si fa caso, in Tv lui è sempre in collegamento, quasi a confermare di essere un’altra cosa rispetto ai salotti. E poi la sua presenza nelle piazze, che sono il simbolo del riscatto popolare contro élite e le burocrazie. Vivere in una campagna elettorale permanente è l’identità stessa della sua leadership. La sinistra ora dovrebbe iniziare a farsi capire. Certo, a volte esiste la necessità di ridurre il tuo messaggio a uno slogan comprensibile. Ma io non penso che la sinistra vincerà la sfida a colpi di tweet. Penso che dovremo imparare a usare meglio i social, questo sì. Ma credo anche che bisognerà recuperare una identità che è la base di una politica che torni ad essere credibile. Perché il successo della destra non è frutto esclusivo solo di una buona comunicazione, ma dell’aver saputo intercettare umori e difficoltà, piegandole a un’ideologia pericolosa in quanto tale».

Da dove può ripartire, in concreto, la sinistra?

«Io sono ottimista, penso che possiamo riuscire a ripartire. Ma servono alcune mosse: la prima è mettere in campo dei valori alternativi a questi. Esiste un vasto campo dell’Italia progressista che non è disposto a tornare indietro su alcuni principi – messi in discussione dai nuovi fondamentalismi nostrani come quelli del Congresso delle famiglie di Verona. La seconda è quella di mettere in campo politiche concrete per far vedere che esiste una strategia alternativa sul tema dei bisogni e della quotidianità. Parlo di formazione gratuita sotto un certo reddito. Parlo di un piano di investimenti nella green new economy, un grande piano di rinascita industriale ed economica sostenibile. Di un taglio radicale del costo del lavoro per aiutare gli imprenditori che investono, e mettere più denaro nelle buste paga dei lavoratori. Terza cosa: focalizzarsi sul famoso radicamento nei luoghi. Se tu nei posti non ci sei mai e ti presenti solo la settimana precedente il voto, non sei credibile. Quarta e ultima cosa: abbandonare ogni istinto di superiorità. Non c’è una superiorità etico-morale della sinistra. Guai a noi se pensiamo di essere l’aristocrazia del Paese. Quei sentimenti che hanno gonfiato le vele della destra vanno rispettati e capiti. E questa è la principale responsabilità in capo a una sinistra che voglia tornare a essere competitiva e a vincere».

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