Da una identità liberista a una primatista – «prima gli italiani» – dalla figura del manager a quella del capitano. Il centrodestra cambia pelle e conquista territori sempre più ampi. Ne è convinto Enzo Risso, professore di sociologia e direttore scientifico dell’istituto di sondaggi e ricerche di mercato Swg che a Open parla di cambio di paradigma, di una vera e propria metamorfosi del centrodestra a guida Lega.
Professore, tiriamo le somme: quali considerazioni finali sui ballottaggi?
«Il ragionamento di fondo è che i ballottaggi confermano il processo di ridisegno dell’identità del centrodestra portato avanti dalla Lega. Ed è un ridisegno che avviene su due macrotemi. Anzitutto il centrodestra passa da un’identità liberista a un’identità primatista, cioè “prima gli italiani”. È schierato per una identità di una comunità difensiva, che cerca di tutelarsi di fronte ai grandi cambiamenti globali e ai grandi processi migratori.
Il secondo cambiamento di pelle del centrodestra è che passa da un’identità aziendalista e da un presidente manager, con una visione manageriale nel modo di gestire i processi politici, alla figura del capitano. E questo non è un elemento da poco. Il centrodestra è al governo nella maggioranza delle città più importanti d’Italia. Questo segna l’atto definitivo di questo cambio di paradigma, del questa metamorfosi del centrodestra italiano».
Dunque il M5s è già nella sua fase discendente?
«Mi sembra evidente che sia in corso un confronto nel M5s sulla leadership. Io leggo nelle uscite esplicite del presidente del Consiglio quello che è il suo candidarsi a essere non più e non solo il garante di questo governo e dunque il garante ed esecutore di questo contratto, ma il leader dei Cinque Stelle. In questo percorso io vedo una partita a due tra l’ala Di Maio e il presidente del Consiglio che cerca di giocare una nuova partita: non più l’arbitro tecnico ma il nuovo punto di riferimento per i 5 Stelle».
E questo è un nuovo scenario che dunque potrebbe aprirsi?
«Lo scenario che si potrebbe aprire è evidente. All’interno di questo Parlamento ci sono due macro pulsioni e spinte differenti, nel senso che con gli attuali rapporti di forza la Lega e i deputati leghisti non hanno paura di andare a elezioni perché sanno che non possono che guadagnarci. Mentre i deputati 5 Stelle e una parte dei deputati degli altri partiti come Forza Italia e Pd sanno che se si va a elezioni per M5s e Forza Italia non ci sarà spazio. Mentre nel Pd una parte di quei deputati che sono stati eletti nell’ala renziana molto probabilmente non troverà spazio nelle future candidature. Quindi, quando si fa un ragionamento sul futuro bisogna considerare questi aspetti».
Se il premier decidesse di mettersi in proprio, a cosa potrebbe mirare un suo ipotetico partito a livello di consensi?
«A livello di consensi è tutto da vedere. È chiaro che se dovesse fare così avrebbe un orientamento più centrista. Per quanto riguarda il livello dei consensi, mi lasci dubitare sulla capacità massiva di raccoglierne».
Rispetto al voto di domenica si è registrato un calo nell’affluenza: i 5 Stelle hanno preferito non andare a votare piuttosto che dare il loro voto al Pd preferendo dunque che venisse eletto un leghista?
«Sì, in parte è così. Ma il problema è anche da attribuire a parte dell’elettorato del Pd che non si è presentato alle urne, specie in Emilia-Romagna. Stiamo parlando di quel voto che era di centrosinistra e che fino a pochi anni fa dava certi risultati».
E invece 7 capoluoghi sono andati al centrodestra: quali sono secondo lei le ragioni alla base della caduta di alcuni feudi rossi?
«Io credo che nelle partite locali conta anche la scelta dei candidati. Perché noi non ci dobbiamo mai dimenticare di quello che è successo a Bari, per esempio. A Bari, il candidato del centrosinistra Decaro è stato eletto al primo turno. Nello stesso giorno, nella stessa cabina elettorale, 50mila baresi avevano votato per il partito di centrosinistra alle europee, mentre alle comunali, cambiando semplicemente scheda, quelli che hanno votato per Decaro erano 109mila. Sono passati dal 30% al 66%.
In una competizione locale non contano solo gli elementi nazionali. Conta la storia, la classe dirigente locale, la scelta del candidato. Ogni elezione locale ha una storia a sé. A Firenze, dove il Pd governa da tanti anni, Nardella ha vinto al primo turno con il 57% ma alle europee le forze politiche che sosteneva Nardella hanno preso il 48%.
Le cause vanno individuate luogo per luogo. Un dato è sicuro: in questo secondo turno i candidati del centrosinistra non sono stati in grado di riportare al voto i propri elettori. O di conquistarne dei nuovi. Questo è il tema di fondo».
Cosa dobbiamo aspettarci a questo punto dal governo alla luce dei risultati delle amministrative?
«Anzitutto ci aspettiamo la Lega al 37,3% perché è ancora in crescita. E poi io credo che sia evidente che questo governo ha di fronte a sé una partita complessa che è quella di generare un percorso di ripresa e di crescita del Paese.
È evidente che il tema è: quale sarà il tipo di progetto che è in grado di rimettere insieme non solo le forze politiche ma anche le energie della società italiana? Perché la vera sfida è questa. Non è solo mettere insieme le forze politiche. La sfida è anche come forze che hanno la maggioranza in Parlamento siano in grado, su un progetto politico ed economico, di rimettere insieme le energie della società italiana. Se non si fa questo sarà molto difficile andare avanti.
E in questo sta anche il limite delle possibilità che ha di agire il premier Conte. Perché in realtà il detentore del consenso non è lui ma sono altri due protagonisti. E questa è una cosa con cui lui deve fare i conti continuamente. In questo momento deve anche sapere che se loro non sono il motore del cambiamento e se non si mettono d’accordo questo governo non va da nessuna parte».
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