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Carola: «Non volevo colpire la Gdf», ma ora anche l’Olanda accusa la capitana della Sea Watch

30 Giugno 2019 - 08:39 Felice Florio
Il Corriere della Sera ha parlato con la capitana della Sea Watch attraverso i suoi legali. Con un tweet, la ong ha escluso che Rackete abbia rilasciato interviste

[Aggiornamento delle 13:15 del 30/06/2019: Sea Watch ha smentito con un tweet che Carola Rackete abbia rilasciato l’intervista]

Carola Rackete, la capitana della Sea Watch 3, è scesa dalla nave visibilmente stremata. Dopo essere stata arrestata e messa ai domiciliari con l’accusa di aver violato le norme sul blocco navale e speronato una motovedetta della GdF, la 31enne tedesca si trova in un luogo di Lampedusa tenuto segreto dalle forze dell’ordine. «Dovevo far sbarcare le persone a bordo – ha detto Carola Rackete al Corriere attraverso i suoi legali – erano iniziati atti di autolesionismo».

La capitana si è scusata con la GdF per aver urtato la motovedetta: agli inquirenti ha spiegato che l’impatto non è stato intenzionale, ma frutto di un calcolo sbagliato. Nell’intervista, Rackete racconta i momenti di tensione, iniziati ieri quando «ho tentato di avvertire che stavo per attraccare, ho chiamato più volte il porto di Lampedusa, ma nessuno parlava inglese».

I motivi dello speronamento

«È stato un errore, un errore di avvicinamento alla banchina – ha iniziato così la sua analisi della manovra che ha portato la Sea Watch 3 a scontrarsi con la motovedetta della Guardia di Finanza -. Non volevo certo colpire la motovedetta, non era mia intenzione mettere in pericolo nessuno. Per questo ho già chiesto scusa e lo rifaccio: sono molto addolorata che sia andata in questo modo».

Rackete ha ribadito più volte questo passaggio: «Mai nessuno deve pensare che sia stato un atto violento. È stata solo disobbedienza, e ho compiuto un errore di avvicinamento». Poi ha chiarito che per evitare la collisione «appena entrata in porto, sono scesa al livello inferiore dove c’era il primo ufficiale, per consultarmi con lui. Ma non mi ero accorta che la motovedetta fosse così vicina».

L’urgenza di attraccare

Il giudizio di convalida dell’arresto è atteso per lunedì primo luglio. Ma Rackete ha tenuto a precisare che non aveva altra scelta: «La situazione a bordo era disperata. Il mio solo obiettivo era portare a terra persone stremate e ridotte alla disperazione: avevo paura».

E la paura si era concretizzata «nei turni, anche di notte, per timore che qualcuno potesse gettarsi in mare. Per i migranti, che non sanno nuotare, significava suicidio. Temevo il peggio, c’erano stati atti di autolesionismo tra le persone a bordo e rischiavamo che si arrivasse ai suicidi».

«Disobbedienza, non violenza»

«Quando sono stata convocata per l’interrogatorio fuori dalla nave, ho capito che non ci avrebbero fatto sbarcare – ha raccontato Rackete -. Allora ho scelto di rischiare la libertà, ne ero consapevole. Ma non potevo continuare a rischiare che andassero avanti gli atti autolesionistici».

E nonostante abbia provato a spiegare la situazione telefonando al porto di Lampedusa, «nessuno mi capiva, non parlavano inglese». Poi ha concluso: «Per me era vietato obbedire. Mi chiedevano di riportare i migranti in Libia. Ma per la legge sono persone che fuggono da un Paese in guerra, la legge vieta che io le possa portare là».

L’Olanda abbandona la capitana

Nei giorni scorsi, l’Olanda è stata accusata da Matteo Salvini di aver ignorato la questione Sea Watch sebbene la nave ong batta bandiera olandese. I due Paesi sono arrivati ai ferri corti, ma oggi – a sorpresa – l’Olanda ha fatto un parziale passo indietro appoggiando il ministro dell’Interno.

Carola Rackete «avrebbe potuto dirigersi verso la Libia o la Tunisia», si legge in una lettera che la segretaria di Stato dell’Olanda all’immigrazione, Ankie Broekers-Knol, ha inviato al ministro dell’Interno Matteo Salvini.

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