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Carta d’identità per iscriversi sui social, Marattin (Italia Viva): «La democrazia è in serio pericolo»

29 Ottobre 2019 - 15:05 Felice Florio
Bot, troll, deep fake, fake news: il web è un mondo fortemente influenzato da meccanismi oscuri. Ed è sempre più difficile porre un argine alla diffamazione sui social, usata anche per fini politici

Luigi Marattin, economista e deputato di Italia Viva, ha annunciato sui social l’apertura di un tavolo di lavoro per una «legge che obblighi chiunque apra un profilo social a farlo con un valido documento d’identità». Bot, troll, deep fake, fake news: viviamo in una società fortemente influenzata da meccanismi poco chiari e che sono in grado di influenzare l’opinione pubblica. Ma sussiste anche un rischio privacy, di gestione dei dati, e un problema di competenza legislativa, visto che gli attori hanno sede in Paesi extraeuropei. Open ha intervistato l’onorevole Marattin per approfondire più dettagliatamente la sua iniziativa.

Marattin, in Italia la diffamazione a mezzo web non ha ancora lo stesso valore di quella a mezzo stampa. Come mai?

«In parte perché – come in tanti altri campi – il digitale in Italia non ha ancora culturalmente lo stesso valore che il cartaceo. Ma soprattutto perché, a dispetto dei tanti che falsamente lo affermano, è spesso impossibile risalire a chi scrive un commento sul web. A differenza di quello che accade sulla stampa».

Si tende a confondere libertà di espressione con libertà di insulto e senso di impunità. Chi è responsabile di questa degenerazione nell’utilizzo dei social network?

«Lo siamo un po’ tutti. Tutti abbiamo dapprima sottovalutato la rivoluzione dei social, e poi non l’abbiamo capita fino in fondo. E la mancanza assoluta di filtro (penso una cosa, prendo il telefono, la scrivo e la legge potenzialmente tutto il mondo) ha finito per far prevalere i nostri istinti, che non sempre sono quelli migliori. Poi c’è invece chi ha voluto approfittare di questa rivoluzione tecnologica per manipolare e distorcere la formazione del consenso. E questo, anziché allargare e rafforzare la nostra democrazia, sta finendo per metterla in serio pericolo».

Come si concilia il diritto all’anonimato con la proposta di obbligare i social network a chiedere un documento di identità in fase di iscrizione?

«Il diritto all’anonimato è sacrosanto. È garantito ad esempio quando scrivo una lettera ad un quotidiano, ma non voglio comparire col mio nome. Tutte le redazioni lo consentono (a tutela della libera individuale), ma a patto che loro conoscano la mia vera identità. Sul web invece ognuno può – individualmente o ben organizzato – scrivere quello che vuole, senza mai assumersene la responsabilità (politica, penale o quant’altro). Se questa è democrazia, ammetto di averne una concezione molto ma molto differente».

È una strada percorribile, a livello normativo nazionale, quella di imporre tale onere alle piattaforme di proprietà extraeuropee?

«Anche sulla web tax si diceva così: “Aspettiamo un’iniziativa internazionale, altrimenti è inefficace”. Nel frattempo sono passati gli anni, e le multinazionali del web hanno continuato indisturbate a pagare le stesse tasse del bar qui all’angolo. Poi Francia e Italia hanno iniziato, proprio in questi mesi, ad approvare normative nazionali. Magari imperfette. Ma che rappresentano l’inizio di un processo. A volte i cambiamenti, specie quelli che hanno nemici importanti, devono essere forzati».

Sicuramente l’iter legislativo è complesso quando si tratta con le grandi piattaforme multimediali, come si svilupperà il suo lavoro?

«In parlamento ci sono già due proposte di legge in materia, penso a quella a prima firma Pagano al Senato. Proporremo alle forze politiche un’iniziativa trasversale sul tema. È in gioco la qualità della nostra democrazia, non una bandierina di partito».

Qual è, se c’è, il discrimine tra social network e tutta la galassia di piattaforme per cominciare sul web come whatsapp e chat su PlayStation?

«Studieremo approfonditamente ogni questione con i migliori esperti, ma per quanto mi riguarda nessun discrimine. Chiunque navighi sul web deve essere riconoscibile. Magari in maniera mediata (perché, ripeto, il diritto alla privacy e all’anonimato deve essere garantito), ma l’epoca della giungla di impunità deve finire per sempre».

Quali sono i punti cardine della proposta di legge che sta preparando?

«Chiunque apra un profilo, deve farlo comunicando un proprio valido documento di identità. Possiamo studiare un sistema di certificazione (analogo a quanto accade con lo Spid per temi fiscali), in modo da evitare di dare dati personali ai social network. Perlomeno, più di quanto non abbiano già…».

Il parere dell’esperto

«Bene la proposta di Marattin, solleva l’attenzione su una tematica che sta diventando importantissima per la democrazia – commenta Paolo Balboni, professore di Privacy e cybersecurity all’Università di Maastricht -. Purtroppo, però, non si risolve il problema solo con una legge, bisogna intervenire sull’intero ecosistema».

In che senso?

«Penso sia una buona idea quella di chiedere una carta d’identità per l’iscrizione ai social. Contestualmente, però, bisogna domandarsi se l’environment è preparato a recepire una proposta di questo tipo. Secondo me no, perché comporterebbe una centralizzazione di informazioni su un numero ristretto di player: i principali Social Media Provider. Traduco i miei dubbi: abbiamo pensato alla sicurezza di questi dati?».

Cosa occorrerebbe fare?

«Punto primo, pensare alla sicurezza, alla riservatezza di queste informazioni. Chi vi può accedere e a quali condizioni. Prendiamo ad esempio le forze dell’ordine: la loro azione va organizzata secondo procedure chiare e limpide. Altrimenti sorge un grave problema di democrazia. Nel momento in cui le autorità possono accedere con troppa facilità o in maniera disinvolta a queste informazioni, potrebbe essere messo in piedi un monitoraggio molto invasivo sulle opinioni di chi commenta e agisce sui social».

«Poi bisogna regolamentare con accuratezza l’accesso a questi dati da parte degli stessi fornitori dei social media. Siamo sicuri che questi dati non vengano esposti a possibili abusi? Perché bisogna esserne assolutamente certi. Infine, come proteggere questi dati da intrusioni da parte di soggetti non autorizzati? La perdita di riservatezza, che può arrivare non solo dall’esterno, attraverso gli attacchi informatici; ma nella maggior parte dei casi, la diffusione di informazioni riservate è causata da attacchi dall’interno perpetrati da dipendenti o ex dipendenti».

Insomma, agire alla radice.

«Se ogni persona, nel momento in cui subisce un danno sul web, si rivolgesse alla polizia postale, il sistema si intaserebbe in un secondo (come è già intasato). Il tragitto legale per arrivare alla giustizia è troppo involuto, anacronistico per una società sostanzialmente basata sul traffico delle informazioni. Per questo sono d’accordo con la proposta di legge, ma come occasione per rivalutare l’intero sistema. Per due motivi: primo, l’iter legislativo, parlamentare, è inadeguato ai tempi di internet: si inizia a studiare una legge che, prima di essere adottata, nella maggior parte dei casi sarà diventata già vecchia. Secondo, per come il sistema è strutturato le autorità competenti non hanno le forze per agire con questi ritmi».

Ma a cosa è dovuta tutta questa lentezza per un, mi passi il termine, refresh dell’impianto giuridico?

«Deriva da un fisiologico mancato aggiornamento del sistema giuridico rispetto a nuove fattispecie dei reati che avvengono sulle piattaforme digitali. Non vuole essere una giustificazione, ma un richiamo all’attenzione: il web esiste da tempo e la giustizia è colpevole di non essersi evoluta con la stessa velocità. Secondo una mia personale opinione, va ripensato l’intero sistema, giuridico, legislativo e operativo, per adeguarlo alle velocità di internet. Ci vogliono, in media, anni sia per concordare una legge che per completare processi di giustizia che rientrano in questo campo, sono un’eternità in confronto ai tempi che impone internet».

Individua qualche responsabile per questa deriva del mondo social?

«Questo è un problema culturale: la cultura italiana, europea, negli ultimi anni si è basata sui cosiddetti “cinque minuti di gloria” in cui la persona appare e si fa notare. Prima in tv, adesso sui social. Tutto questo ha portato una rincorsa al sensazionalismo. Bisogna ottenere quei cinque minuti di fama, costi quel che costi. L’abitudine a rincorrere questo sensazionalismo, porta a derive pericolose, ad esempio scrivere per impressionare anche diffamando altre persone. E spinge a utilizzare parole a forte impatto mediatico, a effetto. La tv c’è l’ha insegnato attraverso i talk-show. E sui social avviene una sorta di replica di questo comportamento. La differenza è che sui social c’è una maggiore possibilità di anonimato e quindi la difficoltà di rintracciare l’origine della diffamazione».

Ma è così difficile individuare chi si cela dietro a un nickname?

«In realtà no. Il problema, come dicevo, è che non ci sono abbastanza forze interne agli organi competenti per gestire l’intero flusso. Di base, ogni connessione ha un suo indirizzo Ip. Questo indirizzo Ip connette una macchina alla rete. Rintracciarlo non è difficile, soprattutto se è un Ip in chiaro che non è stato cifrato. Anche se gli strumenti per oscurare il proprio Ip sono di facile reperibilità e alla portata di tutti. Ad ogni modo, nella maggior parte dei casi ci sono situazioni diffamatorie che avvengono con l’unico presidio dell’anonimato, che è il nickname: quindi l’Ip è in chiaro. Come si fa ad andare a recuperarlo? O uno lo fa da sé con consulenti privati, nell’alveo della legalità sia chiaro. Oppure si sporgono denunce ad esempio presso la polizia postale. Occorre poi comunque individuare chi realmente abbia utilizzato tale strumento connesso alla rete».

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