A quale velocità viaggiava la sua auto? In che punto precisamente stavano attraversando Gaia e Camilla?
«Non le ho viste, non ho visto nulla». Il 20enne Pietro Genovese potrebbe ripetere queste parole davanti al gip che lo scorso 26 dicembre ha disposto per lui gli arresti domiciliari. La stessa frase che pronunciò subito dopo l’incidente in Corso Francia, a Roma, in cui hanno perso la vita le 16enni Gaia e Camilla. Oggi, 2 gennaio, è previsto per lui l’interrogatorio di garanzia. Il giovane potrebbe anche avvalersi della facoltà di non rispondere oppure fare delle dichiarazioni spontanee. Verranno sentiti, probabilmente domani, i due amici di Genovese che erano in macchina con lui per chiarire alcuni dei nodi ancora da sciogliere sulla dinamica dell’incidente. Per esempio la velocità su cui viaggiava l’auto guidata dal 20enne. Per i testimoni procedeva ad «alta velocità» ma, secondo quanto dichiarato finora dai due amici di Genovese, la velocità sarebbe stata contenuta poiché la macchina era appena ripartita, essendo scattato il semaforo verde. Un altro punto che dovranno chiarire gli inquirenti riguarda il punto in cui Gaia e Camilla hanno attraversato la strada: erano sulle strisce oppure hanno scavalcato il guardrail? Qui le testimonianze sono contrastanti e si spera che le telecamere di sorveglianza possano aiutare a ricostruire parte della dinamica. Per il gip il comportamento di Gaia e Camilla ha concorso «alla causa del sinistro mortale», ma secondo l’avvocato della famiglia di Camilla le ragazze avevano cominciato l’attraversamento con il verde. Infine c’è la questione dello stato in cui Pietro Genovese si è messo alla guida. Aveva un tasso alcolemico di 1,4, quindi superiore al limite consentito. E dalle sue analisi sono emerse tracce di droga: non potrà essere contestato l’uso di stupefacenti, perché nessuna analisi tecnica ha dimostrato che abbia agito in “stato di alterazione” in quanto non si può stabilire con certezza quando Pietro abbia consumato gli stupefacenti. Per avere dettagli sull’eventuale consumo di droga la sera dell’incidente gli inquirenti potrebbero sentire alcuni degli ospiti della serata a cui partecipò anche Genovese.
Una storia a lieto fine. Forse. È quella della Casa delle donne Lucha y Siesta di Roma: per un 2019 cominciato con la minaccia di sgombero per questa casa rifugio simbolo della lotta alla violenza di genere ma anche della battaglia femminista, la fine dell’anno sembra invece portare con sé la prospettiva di un futuro. A cambiare le carte in tavola ci sono i fondi – 2,4 milioni di euro – stanziati dalla Regione Lazio nel bilancio regionale approvato pochi giorni fa.
«Diamo Lucha alla città» è stato in questi mesi il motto della campagna per salvare questo progetto ormai attivo da quasi 12 anni. Ora i 2,4 milioni di euro in arrivo per «salvaguardare la continuità dell’esperienza Lucha y Siesta aprono importanti orizzonti», dicono sollevate a Open le attiviste della Casa. «Ci auguriamo che si chiariscano al più presto i tempi e le modalità dei successivi passaggi».
Sotto sgombero
Il punto è che la Casa rifugio per donne che fuoriescono dalla violenza domestica si trova in uno stabile occupato di proprietà dell’Atac. A un passo dal fallimento, la società di trasporto pubblico capitolina ha deciso qualche tempo fa di vendere il suo patrimonio immobiliare nell’ambito della procedura di concordato preventivo. Destino che toccherebbe dunque in sorte anche all’edificio di via Lucio Sestio 10.
Lo stabile, in questa piccola traversa di via Tuscolana, era in stato di abbandono da anni. A occuparlo – e farlo rinascere – ci ha pensato nel 2008 un gruppo di donne, con l’intento, fin da principio, «di renderlo disponibile per le donne che decidevano di uscire dalla violenza, in un territorio estremamente popoloso e complesso», raccontano le attiviste di Lucha y Siesta nella lettera-appello inviata quest’estate alla giudice fallimentare per chiederle di non permettere – per quanto di sua competenza – la fine di questo progetto.
«Quando entrammo, lo stabile era fatiscente e degradato. Era la casa di piccioni e topi. Con molto sforzo lo abbiamo bonificato e reso agibile fino a divenire quello che è oggi»: una Casa delle donne il cui operato è stato riconosciuto dalla Commissione FEMM – diritti delle donne uguaglianza di genere – del parlamento Europeo a Bruxelles, che «ha auspicato la riproducibilità del progetto».
A settembre è nato il Comitato Lucha alla Città, per – tra l’altro – raccogliere i fondi necessari per provare a rilevare l’immobile all’Atac. Una campagna che nel frattempo ha raccolto 108mila euro con il crowdfunding, cui hanno partecipato a oggi 1032 persone: «L’abbiamo costruita con impegno e passione, adesso dobbiamo e vogliamo comprarla», spiegano le donne di Lucha.
Ora i 2,4 milioni di euro potranno essere utilizzati per comprare lo stabile? «Non lo sappiamo, attendiamo maggiori informazioni», dice ancora Simona, attivista di Lucha. «Confidiamo di capire in dettaglio nelle prossime ore quali passaggi occorrano essere espletati per poterci dire sicure di aver vinto questa battaglia».
E ora?
C’è tempo fino a fine febbraio 2020 – data ultima comunicata dal collegio di curatrici fallimentari che sta seguendo il dossier – per uno sgombero temuto, che è ancora sul tavolo e che è stato sventato più di una volta in questi mesi. La soluzione, spiega a Open Marta Bonafoni, consigliera regionale che, insieme ad altri 9 colleghi, ha presentato la proposta dei fondi per Lucha in bilancio regionale, «andrà trovata prima di allora».
Il primo passaggio «sarà condividere con le donne di Lucha le prospettive che ora ci sono sul tavolo». Le ipotesi sono due: da un lato quella – preferita dalle attiviste, per storia e presidio sul territorio – dell’acquisizione dello stabile «facendo un’offerta al curatore fallimentare». Su questo «c’è l’impegno di convocare un tavolo tecnico con i Campidoglio, l’Atac, lo stesso collegio che segue il concordato, per valutare tutti gli elementi: dal 7 gennaio tenteremo di capire se è effettivamente una strada percorribile, e, nel caso, come», dice Marta Bonafoni.
L’altra ipotesi è quella di usare quei fondi «per la ristrutturazione di un immobile che fa parte del patrimonio regionale, già valutato come restituibile alla cittadinanza» e che si trova in via Sagunto, nello stesso quadrante e a pochi metri dall’attuale sede di via Luco Sestio. «Con la prospettiva, aggiungo, di creare un vero e proprio polo di welfare sul territorio con tutta una serie di altri servizi e realtà». Quest’ultima ipotesi resta potenzialmente più “lineare” – con un’unica interlocuzione necessaria, ovvero quella con la Regione Lazio.
Lo stanziamento annunciato dalla Regione Lazio «rappresenta un valido strumento soprattutto nell’ottica di una sperimentazione sistemica del progetto ideato e portato avanti dalle operatrici di Lucha Y Siesta», spiegano a Open dal Campidoglio. In questi mesi sotto sgombero, il contrasto tra le donne di Lucha y Siesta e l’amministrazione guidata da Virginia Raggi, descritta come «silente», ha toccato livelli di scontro anche elevati. «Nel frattempo Roma Capitale ha sostanzialmente concluso l’allestimento degli appartamenti che ospiteranno le donne che oggi vivono nell’immobile», dicono ancora dal Campidoglio. «I trasferimenti delle donne nelle strutture arredate potrà quindi partire già a inizio gennaio».
Le attiviste
«Noi non ci siamo mai sottratte al dialogo con tutte le istituzioni coinvolte», commentano intanto dalla Casa a Open. «Al contrario abbiamo tentato di far capire quanto rilevante fosse questa esperienza per le donne che vivono dentro Lucha y Siesta e per la città di Roma tutta».
Lucha è una casa rifugio per donne che fuoriescono dalla violenza, un centro antiviolenza, «ma anche una casa delle donne che produce cultura e offre servizi al territorio. È un luogo dove si fa politica e si pratica femminismo», raccontava qualche tempo fa a Open Chiara, attivista della Casa. Dal 2008 ha accolto 1200 donne: più di 140 hanno vissuto qui, con 60 bambini e bambine.
Sono 25 i posti letto disponibili in tutta la Capitale per le donne che fuoriescono dalla violenza: secondo la convenzione di Istanbul, che pure l’Italia ha ratificato, in una città delle dimensioni di Roma i posti dovrebbero essere 300. La sola Lucha y Siesta ne ha 13, di posti letto: il 60% di tutta la città. Roma ha in totale altre quattro case rifugio: lì le donne possono trovare ospitalità al massimo per sei mesi. Peccato che, a detta di operatrici ed esperti, sia un lasso di tempo insufficiente: soprattutto se ci sono figli e figlie, per arrivare all’autonomia ci vuole almeno un annetto di tempo.
Ora le novità in arrivo dalla Regione «ci riempiono di speranza e nuova energia per portare avanti la nostra battaglia», spiegano da Lucha y Siesta. «Avevamo chiesto coraggio e coraggio si sta palesando. Quello stesso coraggio che noi dimostriamo da circa 2 anni, cioè da quando questa battaglia è iniziata e sappiamo che nulla sarebbe potuto accadere senza la nostra convinzione di essere nel giusto e la solidarietà il sostegno di una comunità ampia che conta migliaia di donne e persone in tutta Italia che si sono attivate in questo periodo e che hanno fatto nascere il comitato Lucha alla città: artiste, fumettisti, attiviste e cittadine e cittadini, una potenza inarrestabile».
La battaglia potrebbe essere ancora lunga, «ma per la prima volta abbiamo degli alleati che hanno compreso la portata di quello che c’è in gioco: la violenza sulle donne si affronta solo se lo facciamo tutte e tutti insieme. Indietro non si torna. E salvaguardare i luoghi delle donne è il primo passo per raggiungere questo obiettivo». Sono un po’ le stesse parole che usa la consigliera Marta Bonafoni: «Ci voleva coraggio. Questo è un primo passo per rimettere al centro del tavolo una fiducia reciproca».
Insomma. «Ce n’est qu’un debut, continuons le combat!». Non è che l’inizio, dicono da Lucha y Siesta. La battaglia continua.
In copertina il centro Lucha Y Siesta, Roma, 7 settembre 2019. ANSA/Massimo Percossi Haver/Di Piazza/Capponi