Università e ricerca, cosa sono gli ERC e perché fanno litigare gli accademici italiani – L’intervista

In un Paese come l’Italia dove il ministro dell’Istruzione si dimette perché mancano i fondi per la ricerca, i finanziamenti europei dovrebbero trovare tutti d’accordo. Eppure c’è chi non gradisce

A prima vista i finanziamenti europei del Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) dovrebbero mettere tutti d’accordo. Istituito nel 2007 dall’Unione europea l’ERC ha finanziato in dodici anni circa 10mila progetti. Soltanto nel 2019 sono stati spesi più di 2 miliardi di euro di cui hanno beneficiato docenti e ricercatori (anche precari) nelle maggiori discipline scientifiche, sociali e umanistiche.


Si parla di soldi europei che vengono assegnati per un progetto di ricerca principalmente in base ai meriti della proposta. Finanziamenti che, una volta ottenuti, permettono (potenzialmente) l’assunzione di altri ricercatori nell’istituto di ricerca o università di destinazione, nuovi o vecchi che siano, a seconda delle offerte ricevute dal vincitore o dalla vincitrice.


In teoria possono agevolare la progressione nel mondo accademico di giovani ricercatori dotati di buone idee ma di non altrettanto promettenti prospettive lavorative (i finanziamenti solitamente sono per 5 anni), facilitando anche il famoso rientro “dei cervelli in fuga“.

Il rientro dei cervelli in fuga e la stabilizzazione dei precari

Se è vero che i ricercatori italiani spiccano nelle classifiche dei finanziamenti dell’ERC, è altrettanto vero che nella maggioranza dei casi portano i finanziamenti all’estero. Nel 2018 su oltre 600 milioni di euro in finanziamenti destinati a 408 ricercatori, gli italiani erano 37 (terzi dopo i tedeschi – 72 – e i francesi – 38), ma meno della metà lavoravano in istituzioni italiane.

In un Paese come l’Italia, in cui il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti si dimette lamentando i pochi finanziamenti per la ricerca, non è cosa da poco. Eppure c’è chi, come Walter Lapini, professore di Letteratura greca dell’Università di Genova, non apprezza e sul Corriere denuncia i «super-finanziamenti che sconvolgono l’università».

«Effetto bomba d’acqua»

Secondo Lapini i finanziamenti (sproporzionati rispetto ai meriti reali dei progetti di ricerca “modaioli”) creano una situazione per cui gli atenei sono “costretti” a offrire «posizioni di prestigio» pur di «accaparrarsi la gallina dalle uova d’oro», scardinando gli equilibri e le gerarchie interne: «l’effetto è quello della bomba d’acqua sui terreni aridi e brulli – scrive Lapini – disgrega, dilava, trascina».

Non è d’accordo Fabio Sabatini, Professore Associato di Politica Economica alla Sapienza di Roma e Direttore dello European PhD Programme in Socio-Economic and Statistical Studies, per cui la posizione di Lapini è motivata dal fatto che «nell’università italiana c’è una forte tensione tra i conservatori, vecchi o giovani, che vogliono restaurare le logiche baronali, che contrastano il merito e la valutazione della ricerca e gli studiosi, giovani o vecchi, che credono che la capacità di produrre ricerca scientifica di alto livello debba essere l’unico criterio per il reclutamento e per l’assegnazione dei finanziamenti».

Sabatini non parla da parte lesa, almeno non direttamente: né lui né il suo dipartimento hanno vinto – per il momento, quantomeno – una borsa ERC. Ma, come altri suoi colleghi, non ha gradito il tono di Lapini, i suoi riferimenti ai «cani sciolti» (precari) o all’inglese «vaselina dei popoli» e, in generale, le critiche da lui mosse a uno strumento che Sabatini ritiene essere un bene per l’università italiana.

Professore, cosa non condivide dell’articolo di Lapini?

«Non condivido innanzitutto, oltre al linguaggio rancoroso e il disprezzo per parametri di valutazione meritocratica, quella che mi sembra essere un’ostilità nei confronti di qualsiasi forma di internazionalizzazione. Un errore gravissimo, perché la ricerca scientifica è internazionale. Noi abbiamo il dovere di confrontarci con il sapere scientifico globale, non basta che ci confrontiamo in italiano con le poche persone che lo parlano. Perché se ci confiniamo così, non possiamo ricevere il feedback del 99% dei ricercatori che non parlano italiano e che magari hanno già fatto ricerche simili. Così ci fermiamo»

Eppure i criteri di valutazione non sempre sono chiarissimi.

«È uno dei problemi fondamentali della valutazione. I detrattori sostengono che qualsiasi criterio della valutazione sia arbitrario. Sicuramente è vero che stabilire dei criteri di valutazione è difficile, ma non è un’impresa a cui dobbiamo rinunciare, soprattutto in Italia: valutare con dei criteri migliorabili è sempre meglio che non valutare. Se si rinuncia a valutare, come vorrebbero i conservatori dell’accademia, non si dà alcun incentivo ai ricercatori a partecipare al dibattito scientifico internazionale»

A suo avviso alcuni atenei sono avvantaggiati rispetto ad altri? Quanto conta la reputazione?

«Conta tanto, non c’è dubbio. Questo è, in parte, un elemento di debolezza. Ovviamente il modo in cui vengono assegnati può essere criticato e migliorato. Ma attenzione, perché è anche giusto che la reputazione sia un criterio di selezione, può essere garanzia di qualità. Poi è anche vero che ci sono atenei che addestrano i loro affiliati a partecipare ai bandi internazionali. Per esempio la Ca’Foscari di Venezia lo fa molto bene. Ma si chiama competizione»

Secondo lei gli atenei in Italia dovrebbero puntare di più su questo tipo di formazione?

«Certo. Capisco alcune distorsioni a cui Lapini fa riferimento nel suo articolo, come il fatto che nei corsi per “addestrare” i propri ricercatori a partecipare ai bandi internazionali si spieghi loro anche come rendere il progetto più accattivante agli occhi dei valutatori. Questo può avere conseguenze negative, portando per esempio ad ignorare o sottovalutare aspetti della ricerca di base poco attraenti ma importanti. Ma è anche vero che questo incentiva uno sforzo continuo da parte del ricercatore di individuare l’utilità sociale delle sue ricerche, per esempio. Ha luci e ombre»

Ma non si finisce così per creare nuovi conformismi, premiando la forma a discapito della sostanza?

«Il rischio di conformismo non esiste nella ricerca scientifica. Se la ricerca è interessante, ed ha una domanda di ricerca degna di essere approfondita, chi la valuta se ne rende conto. Parlo della mia disciplina: in economia si può pubblicare su qualsiasi argomento, senza nessun conformismo. Quello che è importante è che sia rilevante e che sia trattato con rigore scientifico. Non è una questione di conformismo ma di rigore»

Nello specifico, come valuta l’impatto degli ERC sul mondo accademico italiano nel suo complesso?

«Sicuramente danno la possibilità a quelli che Lapini chiama i “cani sciolti” di emergere e di stabilirsi in modo stabile. Certo, molto spesso vediamo ricercatori italiani che vincono gli ERC e li portano all’estero. Però è ovvio che l’impatto non può che essere buono: si parla di finanziamenti che il nostro sistema non fornisce. Noi ne abbiamo di molto, molto modesti: i più grandi sono nell’ordine dei 300mila euro. E sono sempre troppo pochi»

Foto di copertina – Samuele Giglio on Unsplash

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