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Il blitz e i dubbi sulla foto del rilascio. Gli 007 italiani: «Il giubbotto di Silvia è nostro, non turco»

11 Maggio 2020 - 19:19 Sara Menafra
Lo stemma potrebbe essere stato appiccicato da un mediatore oppure essere frutto di un fotomontaggio

Nella valanga di polemiche di queste ore l’Aise (che pure ha messo a segno senza incidenti la liberazione della giovane milanese) è stata accusata di aver dato troppo spazio alla Turchia che, sul fronte interno, rivendica quella di Silvia Romano come una liberazione fatta esclusivamente da Ankara che poi avrebbe “consegnato” la ragazza all’Italia.

Addirittura facendo circolare la versione che la ragazza, fino all’arrivo in ambasciata a Mogadiscio sarebbe stata sotto custodia turca. La prova fornita dai media turchi – sia in turco sia in inglese – sarebbe nella foto di Silvia al momento della liberazione. Una immagine in cui indossa un giubetto antiproiettile con simbolo turco. Dunque, è l’argomentazione che si legge su diverse testate turche, è stata consegnata all’Italia.

Anadolu Ajansi | Silvia Romano appena dopo la liberazione

“Tutto falso”, ribattono le fonti italiane. Negli ambienti dell’intelligence, per una volta si sbilanciano ulteriormente: “Quel giubbotto antiproiettile appartiene all’Italia”. Su questo punto la posizione è nettissima. Anche perché la foto è in tutto, se non in quel simbolo, identica a quella che tramite canali riservati è stata inviata al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al momento della liberazione, come prova che tutto si era svolto per il meglio.

Un fake?

Le ipotesi che circolano negli ambienti dell’intelligence italiana, e su cui si stanno svolgendo approfondimenti, sono due: la prima è che la foto sia un fake, con alcuni particolari portati su un’altra immagine. La seconda è che il mediatore che ha partecipato alla liberazione di Silvia, nei pochi minuti prima della consegna agli agenti italiani o in ogni caso mentre gli italiani non erano presenti sulla scena, abbia messo uno “stretch” sul giubetto e scattato la foto, per darla ai turchi in cambio di un ulteriore pagamento.

La partita geopolitica

La Turchia sta usando questa liberazione sul fronte interno, per rivendicare il ruolo ancora importante con gli alleati occidentali (non dimentichiamo che è e resta membro della Nato). E vuole far circolare il messaggio anche in Africa, dove ha interessi crescenti. L’Italia ha accettato finora che l’alleato usasse anche la cooperazione nella liberazione di Silvia Romano per il proprio posizionamento, ma ovviamente rivendica che la regia della liberazione è stata di Roma, con un certo peso anche alla collaborazione somala.

Anche perché, e questo è l’altro punto che viene confermato in ambienti di intelligence, la squadra che ha portato a termine la liberazione di Silvia Romano è la stessa che nel 2018 si è di fatto “trasferita” prima in Kenya e quindi in Somalia per lavorare alla liberazione della ragazza. Dunque la maggior parte del lavoro, in termini di relazioni e verifiche sul campo è stata fatto da loro. Il mediatore finale aveva un contatto privilegiato con la Turchia e l’Italia ha scelto di usare anche quel canale per ottenere la liberazione di Silvia.

La liberazione

La trattativa, del resto, è durata parecchio tempo, soprattutto sul piano economico perché l’organizzazione terroristica somala puntava ad un bottino più ampio (100 milioni) per liberare le vittime di vari sequestri. Alla fine, solo l’Italia è riuscita a chiudere un intesa per un milione e mezzo, di cui duecentomila euro per l’ultima prova di esistenza in vita, consegnata una settimana prima della effettiva liberazione. Il pagamento del riscatto è avvenuto tramite un mediatore, in Qatar.

Lì è iniziato il viaggio di una settimana di Silvia verso il luogo della liberazione. Non a Mogadiscio, come pure è stato detto, ma a decine di chilometri dalla capitale: prima a piedi, poi in macchina, alla fine con un furgone cassonato. Quindi, la ragazza viene consegnata ad un mediatore che la porta verso gli agenti italiani.

Sul fronte delle relazioni internazionali, il riavvicinamento con l’Italia, da parte della Turchia, era iniziato da tempo: venerdì scorso, un bombardamento dell’ambasciata turca a Tripoli da parte di Haftar stava per uccidere il rappresentante diplomatico dell’Italia. La Turchia ha trasformato l’aeroporto di Tripoli in una sua base militare e l’Italia, che vuole ancora mantenere l’ambasciata e un ruolo di primo piano nel paese, anche dal punto di vista economico, ha bisogno di dialogare con Ankara. Questa partita è iniziata ben prima della liberazione di Silvia Romano e continuerà anche dopo.

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