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Coronavirus, la verità di Mattia da Codogno: «Non mi pesa l’etichetta di paziente 1: ma su di me troppe bugie»

22 Maggio 2020 - 07:37 Giulia Marchina
A due mesi dal ricovero, il 37enne di Codogno torna a parlare e spiega quante falsità si siano accumulate attorno alla sua vicenda

Mattia Maestri, il paziente 1, il 37enne di Codogno diventato noto come il primo caso italiano di Coronavirus, prima del ricovero all’ospedale San Matteo di Pavia, spiega che «l’etichetta di paziente 1 non mi è mai pesata, le bugie sì. La cena con un cinese, le due maratone in una settimana: tutto falso». Il racconto è affidato alle pagine di Sportweek, in uscita domani, 23 maggio, con la Gazzetta dello Sport. «Mi è pesata la popolarità che ne è conseguita, devo continuamente respingere le richieste di interviste o di ospitate televisive», dice. Maestri parla delle due settimane in terapia intensiva, della figlia nata pochi giorni dopo le sue dimissioni, e della sua voglia di tornare a correre, passione condivisa con la moglie e con un gruppo di fedelissimi, i compagni del Gruppo Podistico Codogno ’82 che ha voluto coinvolgere nell’intervista. «Nel periodo del mio ricovero – ha spiegato, come si legge in un’anticipazione del servizio – hanno sostenuto la mia famiglia. Si sono anche iscritti ai social per difendermi».

Il 23 marzo scorso, dopo essere stato nel reparto di terapia intensiva e dopo le dimissioni, ha lasciato l’ospedale e lanciato il suo messaggio a tutti gli italiani attraverso un audio. «È difficile dopo questa esperienza fare un racconto di quello che mi è successo. Per diciotto giorni sono stato in terapia intensiva per poi essere trasferito nel reparto di malattie infettive dove ho ricominciato ad avere un contatto con il mondo reale e a fare la cosa più semplice e bella che è respirare», aveva raccontato. E poi: «Da questa mia esperienza le persone devono capire che è fondamentale stare in casa, la prevenzione è indispensabile per non diffondere l’infezione. Questo può significare anche allontanarsi dai propri cari e dagli amici, perché non sappiamo chi può essere contagioso. Io sono stato molto fortunato, perché ho potuto essere curato: ora potrebbero non esserci medici, personale, mezzi per salvarti la vita. Da questa malattia si può guarire».

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