Da Minneapolis l’onda lunga del «Black Lives Matter» si è estesa in tutto il mondo. La morte di George Floyd ci ha ricordato che anche l’Italia deve fare i conti con il suo passato. Ne è certa Selam Tesfai, membro del «Comitato per non dimenticare Abba» e attivista di Non una di Meno. Di origini eritree, è lei uno degli organizzatori della manifestazione italiana dello scorso 7 giugno a Milano per ricordare Floyd e non solo.
Da Minneapolis il movimento «Black Lives Matter» è arrivato anche in Italia. Perché la morte di George Floyd è stata diversa?
«C’è stata sicuramente una seconda ondata rispetto all’utilizzo di uno slogan che già con la morte di Eric Garner e Michael Brown aveva avuto una risonanza molto forte negli Stati Uniti. Ma credo sia ancora troppo presto per capire come mai la morte di George Floyd abbia portato un’ondata di proteste così esplosive. Sicuramente la situazione socio economica ha fatto da cassa di risonanza e anche In Italia stiamo vivendo profonde trasformazioni. Ci sono sempre più giovani menti brillanti che sono in grado di raccontare l’Italia trovando nuove forme riflessione attraverso piattaforme social. Si creano relazioni che possono dare vita a nuove capacità di articolare lo slogan “Black Lives Matter” anche in chiave nostrana».
C’è stata una risposta globale alla morte di Floyd. Ma possiamo dire che il fenomeno del razzismo in Italia abbia delle declinazioni differenti rispetto a quello americano?
«In Europa come in Italia il razzismo è sistemico. Nel nostro Paese risale ai tempi del colonialismo dove questa ripartizione della popolazione è stata imposta ed è diventata legge e consuetudine. Ma il il razzismo non è soltanto una forma di discriminazione. Quando definiamo qualcosa razzista è perché all’interno di quel gesto discriminante troviamo anche una componente ideologica, ovvero la convinzione che esista una superiorità culturale, una superiorità fisica. E il razzismo ideologico è quello più preoccupante perché non si può modificare solo attraverso un atteggiamento pedagogico. C’è un un rapporto istituzionale che va a cristallizzare delle categorie.
Credo che in Italia sia importante affrontare da dove arriva il razzismo. Provengo dall’Eritrea e nella scuola italiana c’è un’assenza completo della storia coloniale delll’Italia. C’è poi un secondo problema: è quello istituzionale. Abbiamo una legge sulla cittadinanza obsoleta, lo Ius Soli viene visto con paura. E il corpo nero viene sempre interpretato come un corpo straniero. Guardiamo alle persone che attraversano il Mediterraneo come a corpi neri invece che guardare a una realtà che è fatta di persone diverse con storie diverse. Da una parte c’è una superficialità culturale, dall’altra c’è un immobilismo molto grave».
Come collaboratrice di Non una di Meno, l’intersezionalità del femminismo e del razzismo anche in Italia è diventata centrale nelle tue battaglie.
«Essere trans femministe vuol dire innanzitutto aspirare, tendere, avere un’attenzione verso appunto l’intersezionalità delle lotte. Una persona subisce vari tipi di discriminazione e questi si intrecciano in combinazioni particolari. Non Una di Meno si oppone al razzismo e lo fa anche opponendosi a situazioni in cui la violenza sulle donne è stata associata al fenomeno migratorio. Si è andata a rafforzare l’idea che la violenza capiti in contesti estranei alla casa o in qualche modo in situazioni imprevedibili. Abbiamo invece voluto sottolineare come la maggioranza dei casi di violenza, circa il 70%, avvenga in realtà dentro le mura domestiche.
Abbiamo rifiutato il discorso paternalista e patriarcale del «non stuprate le nostre donne», in cui il maschio viene a difendere il suo territorio come se la donna fosse un territorio da conquistare. Questo tipo di femminismo prova avere uno sguardo non eurocentrico e infatti deve molto al contributo di femministe afroamericane e allo stesso movimento di Non Una di Meno nato in Argentina. Può essere un insegnamento su come avere uno sguardo diverso e più attento alle minoranze».
Come in molti altri Paesi anche in Italia il tema del razzismo si lega a quello delle disparità socio-economiche. In una grande città come Milano qual il ruolo dello spazio e della periferia?
«Se penso alla città di Milano, penso a due cose. Da una parte Non Una di Meno ha voluto porre l’attenzione sulla decolonizzazione attraverso la rimozione di alcuni simboli che sono simboli patriarcali, coloniali e assolutamente violenti. Simboli che vanno contro una realtà cittadina meticcia, plurale e transfemminista che vuole guardare al futuro e non può avere come esempi da idolatrare certi personaggi. Mi riferisco alla statua di Indro Montanelli per esempio su cui c’è stato lo scorso anno un attacco di vernice rosa durante un corteo.
Credo sia molto difficile da accettare che una città abbia deciso di dedicare una statua in uno spazio pubblico vicino a un quartiere migrante, un quartiere che ha rappresentato la diaspora eritrea, etiope, somala, di quell’Africa orientale di cui tanto non si vuole parlare. Edificare qualcosa e qualcuno, lo spazio pubblico ha sempre un significato: sia da chi lo definisce, sia da chi lo vive».
Durante questa pandemia uno dei dibattiti politici più accesi è stato quello della regolarizzazione dei migranti. L’Italia può ripartire da qui per sconfiggere il razzismo o ci sono altre priorità?
«Dopo tanti anni di passi non fatti le cose si accumulano. Sicuramente bisogna aprire un discorso franco sul tema della regolarizzazione. È un dibattito che provoca un razzismo feroce, soprattutto non so come si possa rimandare ancora un vero confronto sul fatto che alcune persone siano costrette a vivere in maniera parzialmente illegale. Però c’è anche un altro tema che è il tema della riforma della cittadinanza. Uno Ius soli non viziato: chi nasce in questo Paese ha diritto ad avere la cittadinanza. Comprendo che il passaporto italiano abbia un valore nel mondo, però i figli non possono avere la responsabilità della condizione in cui si trova la propria famiglia».
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