Dall’inizio dell’epidemia di Coronavirus sono morte 9.154 persone nelle Rsa italiane. Quasi la metà sarebbe riconducibile al contagio di Covid-19, con il picco registrato tra il 16 e il 31 marzo. A dirlo è il report finale dell’Istituto superiore della Sanità nell’indagine nazionale sul contagio nelle strutture residenziali e sociosanitarie, svolto in collaborazione col Garante nazionale delle persone private della libertà personale.
Nel corso dell’indagine sono state raccolte le risposte di 1.356 strutture, pari al 41,3% di tutte le Rsa contattate. Secondo il rapporto, solo il 7,4% dei decessi nel corso del periodo preso in esame, dal 1 febbraio al 30 aprile, può essere legato con certezza al Coronavirus, essendoci stato riscontro con tampone, mentre il 33,8% dei casi riguarda decessi di persone che avevano sintomi simili all’influenza, alle quali però non è stato possibile effettuare un test.
Decessi
Le 1.356 strutture consultate avevano un totale di 97.521 residenti alla data del 1/o febbraio 2020, con una media di 72 per struttura. I decessi totali sono stati 9.154, di questi 680 positivi al tampone e 3.092 con manifestazioni simil-influenzali senza tampone. La percentuale maggiore di decessi, com’era prevedibile, è stata registrata in Lombardia (41,4%), Piemonte (18,1%) e Veneto (12,4%).
Difficoltà riscontrate
Ma l’indagine ha anche preso in considerazione le difficoltà riscontrate dalle strutture, a partire dalla mancanza di dispositivi di protezione, confermata nel 77,2% dei casi. Circa il 20% dei referenti ha evidenziato la scarsità di informazioni ricevute circa le procedure da svolgere per contenere l’infezione.
Circa un terzo invece lamenta l’assenza di personale sanitario. In media sono stati riportati 2,5 medici, 8,5 infermieri e 31,7 operatori socio sanitari per struttura: circa l’11% delle strutture ha dichiarato di non avere medici in attività nella struttura fra le figure professionali coinvolte nell’assistenza.
Inoltre, il 10% circa delle strutture segnala mancanza di farmaci e 12,5% difficoltà nel trasferire i residenti affetti da Covid-19 in strutture ospedaliere. Infine, circa 1struttura su 4 dichiara di aver avuto difficoltà nell’isolamento dei residenti affetti dal virus.
Il 28 aprile scorso Nature contava 90 potenziali vaccini contro il SARS-CoV2. In meno di due mesi se ne contano oltre 130: nel momento in cui scriviamo otto sono alla prima fase di sperimentazione; altrettanti hanno raggiunto la seconda; due si piazzano in fase tre.
Alcuni li avevamo già trattati in precedenti articoli, come quello dell’Università di Pittsburg, il PittCoVacc, ancora in fase preclinica. Il vaccino della Johnson & Johnson è invece realizzato nell’ambito di un fondo stanziato dal Governo degli Stati Uniti, ed è in attesa di arrivare alla fase 2 entro metà luglio.
In cosa consistono le varie fasi di sperimentazione dei vaccini? Quali sembrano avere più possibilità di essere efficaci? Facciamo il punto di questa corsa al vaccino.
Le fasi della sperimentazione
Per garantire sicurezza ed efficacia di un vaccino, come di qualsiasi farmaco e terapia, occorre seguire determinate fasi di sperimentazione, ed è impensabile snellirle in nome di una pur comprensibile urgenza. Riportiamo quanto afferma su Scienza in rete l’esperta di comunicazione della Scienza Roberta Villa:
«Se si vuole guadagnare tempo lo si può fare accelerando le operazioni burocratiche, non i controlli: le conseguenze di una brutta sorpresa andrebbero infatti ben oltre i danni, anche se fossero lievi, a eventuali persone colpite, ma rischiano di riflettersi, come già accaduto in passato, sulla fiducia nei confronti di tutte le altre vaccinazioni, con un effetto a catena che potrebbe provocare alla lunga un impatto ancora peggiore».
È fondamentale parcellizzare il rischio di fenomeni avversi. Supponiamo di voler sapere quanto sono frequenti i cigni neri in una popolazione. Partendo da un campione di qualche decina, se trovo degli esemplari neri ho già l’indizio che probabilmente sono frequenti; diversamente man mano che espando il campione, se non vedo mai cigni neri, diminuisce la probabilità di trovarne.
In casi di emergenza sanitaria – come quella attuale – si possono accelerare i tempi, combinando più fasi. Diversi potenziali vaccini contro il Coronavirus sono per esempio «Phase I/II trials». Ci vuole il tempo che serve, senza fretta, anche perché i risultati dei test devono essere sottoposti a peer review, con ulteriori accertamenti da parte degli enti competenti.
A proposito di accelerazioni metodologiche e burocratiche, il Governo americano ha stanziato dei fondi per cinque potenziali vaccini, tra cui quello della Johnson & Johnson, ch’è un esempio di Phase I/II trial. Il tutto fa parte della Warp Speed, promossa dalla White House.
Si comincia sempre coi test preclinici, dove è indispensabile la Sperimentazione animale. Oggi più che mai è diventata evidente l’importanza di utilizzare degli organismi complessi, in qualche modo simili al nostro, perché una terapia non può dimostrare efficacia e sicurezza sulle sole piastrine da laboratorio. Gli esperimenti in vitro sono sicuramente importanti, ma come primo passo. Già il passaggio dagli esperimenti nelle colture cellulari ai test sugli animali, screma numerose idee che sembravano inizialmente promettenti;
A questo punto il vaccino passa alla Fase I, dove lo si somministra a un piccolo gruppo di persone perfettamente sane, magari del personale sanitario, cominciando a testarne efficacia e sicurezza, cosa che si ripeterà ovviamente nelle fasi successive;
Nella Fase II il numero di volontari a cui si somministra il vaccino comincia a essere più ampio, nell’ordine delle centinaia di persone, divise per gruppi con differenti caratteristiche, almeno uno di questi riceverà un placebo, così da scremare effetti dovuti alla suggestione o ad altri fattori non visti nelle fasi precedenti;
Nella Fase III si fa grosso modo lo stesso genere di test di quella precedente, ma con migliaia di volontari. Diventa fondamentale accertarsi che non vi siano significativi casi di eventi avversi.
Conoscere il nemico
Lo scopo di un vaccino è quello di indurre il Sistema immunitario a produrre gli anticorpi relativi al patogeno, senza che si scateni la malattia. Dobbiamo avere una serie di conoscenze quindi, riguardo alla capacità degli esseri umani di produrre gli anticorpi e avere un’idea di quanto dura l’immunità, tutti aspetti che presentano ancora diverse controversie, anche se dagli studi emergono evidenze del fatto che tutti i pazienti sintomatici sviluppano gli anticorpi, quelli neutralizzanti in particolare si legano proprio alla proteina Spike (S).
È fondamentale conoscere il nemico. L’idea classica di vaccino è quella di isolare il virus e attenuarlo. Oggi però si usano soprattutto altri metodi. Isolato il virus, quindi facendogli infettare delle cellule in coltura, si è potuto studiare il genoma e la glicoproteina Spike (S), principale antigene che il Sistema immunitario deve imparare a riconoscere; il virus lo utilizza per prendere come bersaglio i recettori ACE2 delle nostre cellule, in particolare quelle delle vie respiratorie. Alcuni studi preprint suggeriscono che la neuropilina-1possa aver giocato un ruolo nel potenziare la virulenza del SARS-CoV2; altri ipotizzano che la mutazione «D614G» lo abbia reso più infettivo.
Per quanto riguarda la risposta del Sistema immunitario e la famigerata tempesta di citochine, associata a numerosi casi gravi e mortali di Covid-19, sono in studio dei principi attivi che aiuterebbero a ridurre la mortalità dei pazienti più gravi. Si tratta però di una corsa parallela al vaccino, che citiamo per completezza.
Tutte queste conoscenze emerse dagli studi sperimentali ed epidemiologici, contribuiscono a ispirare una strategia rispetto ad altre, nella competizione tra aziende e istituti di ricerca impegnati nello sviluppo di un vaccino.
ADE: l’inferno dei vaccini che non superano i test
Con la sigla ADE (Antibody Dependent Enhancement), si indica il «potenziamento anticorpale», ovvero la condizione paradossale in cui gli stessi anticorpi si piegano a vantaggio del virus, migliorandone l’infettività. In alcuni casi può accedere che le stesse cellule del Sistema immunitario finiscano per diventare bersagli del virus, che si moltiplica al loro interno.
Il fenomeno è stato osservato sia in vitro che in vivo, per esempio nella dengue in pazienti gravi, e coinvolgeva gli anticorpi non neutralizzanti. Oggi il vaccino contro la dengue è registrato – per la FDA – solo per pazienti che hanno già avuto la malattia almeno una volta.
Comprensibilmente si tratta di un genere di inconvenienti di cui occorre tener conto. I meccanismi dell’ADE sono ancora oggetto di studio, e gli approcci messi in atto per trovare un vaccino contro il SARS-CoV2 ne tengono conto, onde minimizzare o annullare del tutto il rischio che si verifichi.
Come funzionano i vaccini in fase sperimentale più avanzata
È possibile usare frammenti del genoma virale per ottenere una risposta del Sistema immunitario. Ci eravamo occupati per esempio di quello in studio dalla Moderna, il cui funzionamento è stato frainteso dai complottisti. Si tratta di iniettare nei pazienti l’mRNA che codifica la proteina Spike (S), in questo modo saranno le nostre stesse cellule a produrre il vaccino, consistente nel generare e mettere in circolo gli antigeni.
La INOVIO avrebbe invece sperimentato un vaccino genetico basato sul DNA. Del resto il DNA non fa altro che produrre mRNA, per “comunicare” i suoi messaggi dal nucleo al resto della cellula. Così la società ha sviluppato un frammento denominato «INO-4800», il quale ha le informazioni per produrre la glicoproteina Spike (S).
I vaccini più promettenti che hanno superato i test preclinici sono, oltre ai già citati di Moderna (Fase I) e INOVIO (Fase I), quello della BioNTech (Warp Speed) e dell‘Imperial College di Londra (Fase I/II).
Altre società, come la Johnson & Johnson (Warp Speed: in Fase I/II a partire da metà luglio), usano degli adenovirus resi innocui e incapaci di infettare, con innestato nel loro genoma la parte di RNA che codifica la proteina Spike (S), divenendo così dei vettori dedicati alla produzione dell’antigene.
Con approccio simile, si dirige in Fase III nell’ambito del progetto Warp Speed anche il vaccino della AstraZeneca. Seguono i vaccini della CanSino Biologics (Fase II), e della MERCK (Warp Speed), la quale si avvale del Vesicular stomatitis virus (VSV), già utilizzato nel vaccino contro l’Ebola.
I vaccini basati esclusivamente sulle proteine del virus per indurre una reazione immunitaria sono tutti in fase preclinica – compreso il PittCoVacc – a eccezione di quelli della Novavax (Fase I/II) e della Clover Biopharmaceuticals (Fase I).
Altre società stanno sperimentando versioni indebolite o inattivate del SARS-CoV2, arrivando oltre i test preclinici: Sinovac Biotech (Fase I/II); Sinopharm (Fase I/II); Institute of Medical Biology at the Chinese Academy of Medical Sciences (Fase I). Notiamo che si tratta di una strada intrapresa solamente da società cinesi. Ma per ottenere vaccini in questo modo servono grandi quantità di virus, e industrie che lo riescano a produrre in sicurezza.
Gli australiani del Murdoch Children’s Research Institute, sono gli unici al momento ad aver portato in Fase III un vaccino usato nel Secolo scorso contro la tubercolosi (Bacillus Calmette-Guerin). L’idea è che possa parzialmente proteggere anche contro il Covid-19. Al momento esistono scarse evidenze riguardo alla capacità delle vaccinazioni contro la tubercolosi, di prevenire le infezioni respiratorie. L’ipotesi di chi sostiene questa strada è che inducano una risposta immunitaria più efficiente.
Foto di copertina: Jernej Furman | Doctor in face mask holding syringe with Covid-19 Vaccine text.