La Svezia è un paese per tutti, ma il debito pubblico non c’entra nulla – L’intervento

«Il paese nordeuropeo è interessato ai giovani più dell’Italia? Forse sì, ma a dimostrarlo non è l’organizzazione della finanza pubblica»

«La Svezia è un paese per giovani». Esordisce così l’analisi pubblicata qualche giorno fa su Open, dove si propone un confronto tra le prospettive delle nuove generazioni nel paese di Pippi Calzelunghe da un lato e in Italia dall’altro. In realtà, guardando ai livelli qualitativi dei servizi pubblici, agli indicatori di qualità della vita e ai livelli di tutela delle libertà civili si potrebbe tranquillamente affermare che la Svezia e gli altri paesi scandinavi sono un paese un po’ per tutti: giovani, anziani, donne, diversamente abili, rifugiati, ecc.


Tuttavia, tra tutte le dimensioni che si potrebbero scegliere per condurre tale confronto quella della finanza pubblica (e del debito pubblico) non è forse la più appropriata e andrebbe maneggiata con una certa cautela, per evitare di cadere in una specie di populismo al contrario.


L’argomentazione proposta da chi sceglie questa chiave di lettura è molto semplice e, per questo, accattivante: i cosiddetti mercati hanno sfiducia nel futuro di un paese con alto debito pubblico dato in ulteriore crescita, mentre hanno fiducia in un paese con basso debito pubblico in moderatissima crescita. Ergo, per liberare risorse per il futuro e riconquistare la fiducia dei mercati non vi è altra strada che abbattere il debito e con esso l’onere che ne consegue in termini di spesa per interessi.

Tuttavia, quando ci si avventura in questo tipo di confronti è sempre bene allargare un po’ lo sguardo e cercare di guardare anche l’altra faccia della medaglia; anche perché, in questo caso di facce della medaglia se ne possono trovare più d’una.

Il debito pubblico italiano

Innanzitutto, andrebbe sempre ricordato che circa la metà del debito pubblico italiano è detenuto dal settore privato italiano; un altro 20% è detenuto da Bankitalia e BCE; meno di un terzo è detenuto da investitori stranieri. Ciò significa che, da un punto di vista macroeconomico, per circa due terzi siamo indebitati con noi stessi (la BCE è pur sempre la nostra banca centrale) e che gli interessi che il tesoro paga sul debito, sempre per i due terzi, rappresentano un reddito per il settore privato italiano. Quindi, in media, quei giovani passeranno pure la vita a rimborsare cambiali, ma anche a percepire gli interessi sui titoli del debito pubblico italiani. I giapponesi, che esibiscono da moltissimi anni un rapporto Debito pubbico/PIL superiore al 200% (quasi tutto interno), questa cosa l’hanno capita da un sacco di tempo e infatti tra i tanti problemi che hanno non annoverano il rischio di default.

Seconda differenza degna di nota è che Svezia e Danimarca, come il Giappone, sono esterne all’area dell’Euro e quindi possono contare sulla cooperazione tra banca centrale e tesoro nella gestione del debito pubblico. Come accennato anche nell’analisi proposta da Open, questo è un fattore che di per sé aumenta la fiducia dei mercati nella sostenibilità del debito pubblico, quantomeno nell’alveo dei paesi economicamente sviluppati.

Il confronto diviene però ancora più interessante, se si prova a giustapporre il dato relativo al debito pubblico ad altri indicatori di finanza pubblica. È interessante perché in questo modo ci si può rendere conto della strategia di fondo che ha prodotto un livello così contenuto del debito nei paesi scandinavi e uno così elevato per l’Italia. Come noto, ci sono sostanzialmente due vie per non ricorrere all’indebitamento: contenere la spesa pubblica, oppure aumentare le entrate dello Stato. Ovviamente una strategia non esclude l’altra.

Spesa pubblica a confronto

Per quanto riguarda il lato delle uscite, le differenze tra Italia, Danimarca e Svezia sono tutto sommato contenute. In base ai dati Eurostat, in Italia nel 2019 la spesa pubblica era pari al 48,7% del PIL, in Danimarca e Svezia rispettivamente al 49,6% e al 49,3%. Ciò non deve sorprendere, poiché in tutti e tre i paesi ampi settori dello Stato Sociale forniscono prestazioni universali. Sicuramente il livello qualitativo delle prestazioni non è sempre paragonabile, così come l’efficienza delle rispettive pubbliche amministrazioni, ma questo con il livello della spesa non c’entra nulla. Rimane il fatto che in Italia come in Svezia, Danimarca e Finlandia molti anni fa si è compiuta la scelta di dotare tutti i cittadini del diritto di essere curati ed istruiti gratuitamente, nel senso che il costo delle prestazioni non è coperto dai contributi degli utenti ma dalla fiscalità generale: indipendentemente dall’ammontare delle imposte che pagano, tutti gli individui hanno accesso agli stessi servizi pubblici e, grosso modo, alle stesse condizioni.

Quante tasse?

La distanza tra Italia e paesi scandinavi è molto più ampia se si guarda all’altro lato del bilancio: sempre nel 2019 la pressione fiscale in Italia era pari al 47%, mentre in Svezia era quasi al 50%, in Finlandia oltre il 52%, in Danimarca oltre il 53%. Dato estemporaneo? No, le differenze sono queste praticamente da sempre nel dopoguerra, anzi in passato il differenziale era molto più ampio.

Ciò ha un significato molto preciso: per evitare di finanziare la spesa pubblica in deficit, nei paesi scandinavi si è scelto di versare all’erario più della metà del PIL. Per dare un’idea al lettore di cosa significa avere una pressione fiscale più elevata, può essere utile guardare ad alcune differenze nelle aliquote di alcune imposte. In particolare può essere molto istruttivo guardare all’IVA, che è un’imposta armonizzata all’interno dell’Unione Europea. In Danimarca e Svezia l’aliquota ordinaria è fissata al 25%, mentre in Finlandia è pari al 24%. Da noi invece, dove l’aliquota ordinaria dell’IVA è al 22%, ogni anno va in scena il melodramma della sterilizzazione delle clausole di salvaguardia che, se fossero scattate, l’avrebbero comunque mantenuta al di sotto dei livelli scandinavi: negli ultimi cinque anni la sterilizzazione delle clausole è costata 60 miliardi di euro. Come se non bastasse, proprio in queste ore sembra emergere una proposta di ulteriore taglio delle aliquote nel velleitario tentativo di rilanciare i consumi (non esiste alcuna evidenza né teorica né empirica che un taglio delle aliquote IVA porterebbe ad una riduzione dei prezzi).

Ecco, avere una pressione fiscale più elevata per fare meno debito o per finanziare spese pubbliche con effetti positivi sulla crescita (ad esempio, istruzione o investimenti pubblici) avrebbe significato, ad esempio, scegliere di non disinnescare le clausole di salvaguardia negli ultimi cinque anni e magari fissare aliquote ordinarie IVA più elevate negli anni passati. Oppure, cambiando fronte, avrebbe significato non esentare l’abitazione principale da qualsiasi forma di tassazione; o ancora, avrebbe significato rinunciare alle detrazioni del 50% delle spese di ristrutturazione dei nostri immobili, alle agevolazioni di cui godono le imprese su un welfare aziendale a maglie molto larghe che va dalle assicurazioni sanitarie alle vacanze, e a una miriade di regimi sostitutivi all’interno dell’IRPEF.

…E chi le paga

Nel confrontare i numeri della finanza pubblica italiana con quella di qualsiasi altro paese non si può poi non menzionare l’annosa questione dell’evasione fiscale, quasi inesistente nei paesi scandinavi e tra le più alte d’Europa nel nostro paese. Non solo in Svezia, Danimarca e Finlandia l’erario chiede ai cittadini di pagare più imposte, ma le pagano quasi tutti. Quando si parla di debito pubblico italiano, tuttavia, il tema dell’evasione fiscale consente anche chiavi di lettura meno banali. Buona parte dello stock di debito pubblico del nostro paese è stato infatti accumulato nel corso degli anni settanta e ottanta del secolo scorso. In quegli anni le famiglie italiane avevano accumulato una consistente massa di risparmio, in parte alimentato anche dall’evasione e che stazionava sui conti correnti bancari e nei depositi postali, quando non sotto il celeberrimo materasso Insomma, c’era una massa di risparmio ad elevato rischio di rimanere non impiegata, anche perché va ricordato che a quei tempi erano ancora attivi i controlli sui movimenti internazionali dei capitali. Offrendo rendimenti piuttosto buoni, la collocazione di titoli del debito pubblico permise di intercettare una quota consistente di questo risparmio e di utilizzarla per il finanziamento della spesa pubblica che, per quanto improduttiva (e non era tutta improduttiva) era pur sempre più produttiva del “materasso”. In un certo senso si potrebbe parlare di un compromesso implicito tra policy maker e contribuenti: da un lato si garantiva una pressione fiscale bassa rispetto alle esigenze di finanziamento della spesa e una certa tolleranza nei confronti dell’evasione fiscale, dall’altro si utilizzava lo strumento del debito pubblico, e quindi del differimento dell’onere tributario, per finanziare servizi pubblici universali. Ora, l’inserimento nel compromesso appena descritto di un elemento di tolleranza nei confronti dell’evasione non può che essere censurata, meglio sarebbe stato – nel caso – ridurre la pressione fiscale e combattere qualsiasi forma di evasione. Tuttavia, va anche sottolineato che il problema dell’elevato debito pubblico non sarebbe cambiato di molto né da un punto di vista quantitativo, né qualitativo.

Insomma, la Svezia è un paese per tutti e l’Italia sta sempre più diventando un paese per pochissimi, ma questo con il debito pubblico, la finanza e i mercati non c’entra granché.

*Professore associato di Finanza Pubblica, Università degli Studi Roma Tre

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