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Il pugno duro non salva Trump. Ecco perché oggi più che mai è a rischio il secondo mandato

28 Giugno 2020 - 09:35 Serena Danna
La campagna elettorale per la rielezione entra nella fase finale. I politologi Larry Sabato, Michael Barone e Charles Kupchan raccontano a Open la distanza crescente dell'elettorato conservatore dal "suo" presidente

La stagione nera di Donald Trump – sancita dal flop del primo comizio di Tulsa, dove ad attendere il presidente c’erano molte meno persone del milione annunciato – è ormai l’argomento tabù tra le pareti della Casa Bianca. Se, come sembra oggi, il voto di novembre si tradurrà in un referendum sul presidente, è molto probabile che non ci sarà un secondo mandato per Trump.

Il consenso degli americani vacilla, mentre cresce quello per il non entusiasmante ma pur sempre equilibrato avversario democratico Joe Biden. Gli ultimi sondaggi nazionali parlano di un distacco che supera il 14 per cento, con il presidente fermo tra il 35 e il 37 per cento. Come ha ricordato Giuseppe Sarcina sulla newsletter America- Cina, i presidenti che in passato hanno registrato un tale declino a questo punto del mandato – Jimmy Carter e George H. Bush – non sono stati rieletti.

Mal consigliato dal genero Jared Kushner e dal suo campaign manager Brad Parscale – l’uomo che condivide con il presidente simpatie cospirazioniste e la passione per il trolling -, Trump ha scelto di affrontare il peggior momento della storia americana nell’unico modo che conosce: attaccando malamente gli avversari e reprimendo il dissenso. D’altronde, dentro l’abito da presidente c’è ancora il tycoon che in una famosa intervista a Playboy del 1990 disse che il Partito comunista cinese aveva fatto bene a reprimere gli studenti in piazza Tienanmen e a mostrare il “potere della forza” (al contrario degli Stati Uniti venivano percepiti come un impero debole).

Lo slogan “Legge e ordine”

Così – mentre si trova a mal gestire contemporaneamente una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti – Trump continua a parlare l’unica lingua che conosce: insulti ai democratici, minacce ai manifestanti, stop ai visti per gli stranieri e al programma per i figli degli immigrati, comizi dedicati ad attaccare giornali e potenze straniere, arresto e carcere per chi rimuove le statue. «Sono il vostro presidente di Legge e Ordine», ha detto nel suo primo discorso ufficiale sulle proteste seguite alla morte di George Floyd – «Dove non c’è giustizia, non c’è libertà; dove non c’è sicurezza, non c’è futuro”.

La definizione Law and Order proviene dalla famosa campagna di Nixon del 1968: «È un approccio classico repubblicano, nulla di nuovo – , spiega a Open uno dei sondaggisti più famosi d’America Larry Sabato, direttore del Center for Politics dell’Università della Virginia. Trump la usa in contrasto allo slogan nato nella sinistra radicale che si è diffuso tra i manifestanti, Defund the police: una stupida scelta lessicale che di sicuro verrà rifiutata dalla maggior parte degli elettori. E infatti Biden ha immediatamente respinto questo approccio».

L’elettorato conservatore

Di certo, l’elettorato americano oggi è molto diverso da quello dei tempi di Nixon: nel 1968 quasi il 90% degli elettori era bianco, una percentuale che nel 2020 è crollata al 66%. A una maggiore diversità della popolazione, si aggiunge un cambiamento sostanziale verso i temi che riguardano la giustizia civile. Un sondaggio della Monmouth University ha confermato che quasi il 60% degli americani ritiene che la rabbia che ha portato alle proteste sia “completamente giustificata”. Un dato che raggiunge Il 65% dei consensi tra gli elettori repubblicani.

Uno dei più famosi commentatori politici conservatori, Michael Barone, sottolinea lo spostamento a Open: «L’elettorato repubblicano condannano i saccheggi ma hanno reagito con empatia rispetto alle proteste pacifiche. Di sicuro la maggior parte dei cittadini non vuole vivere in una società che consente attacchi violenti, saccheggi e dove i ladri non sono puniti, ma linea Law and order suona molto dura a tante persone».


Il mondo è cambiato ma Trump non sembra essersene accorto. «Fino al 2010, la maggior parte delle persone non aveva idea dei problemi che interessano le comunità», ha detto a Vox la docente di Georgetown Christy Lopez, ex consulente del Dipartimento di Giustizia. «Le riprese fatte con gli smartphone, la campagna del movimento di Black Lives Matter insieme con l’azione del governo federale che ha finalmente cominciato a indagare la violenza della polizia hanno fatto luce su una situazione che non si può più ignorare».

Eppure, come ha dichiarato Levar Stoney, il sindaco di Richmond, la città dove è stata abbattuta la statua di Cristoforo Colombo: «Trump continua a parlare al Paese come fosse il 1950 e non il 2020».

La “strategia del Sud”

A un certo punto, il presidente aveva provato a cambiare strategia. A maggio aveva smesso di attaccare i governatori dei singoli Stati, sui quali ama rovesciare la responsabilità della cattiva gestione della pandemia, e aveva cominciato ad accettare le loro telefonate. Dopo un esordio molto aggressivo, si era addirittura mostrato più aperto alle ragioni dei manifestanti, annunciando una riforma della polizia attenta alle vittime della brutalità delle forze dell’ordine, e alle problematiche della comunità afroamericana.

Tuttavia il miraggio del cambiamento è durato poco: il pugno duro è tornata a farla da padrone. «La base di Trump continua ad amare questo atteggiamento – spiega Sabato -, il Sud (eccetto per la Virginia e in parte per la Florida) ce l’ha in tasca. Un giorno i Repubblicani si pentiranno di come Trump ha posizionato il partito. L’elettorato si identifica sempre meno come la coalizione del presidente, eppure il GOP non ha fatto altro che abilitare Trump».

Anche la famigerata “Strategia del Sud” – quella da sempre usata dal partito per far credere di essere l’unico capace di combattere il crimine e i disordini – non appare più vincente in un Paese dove il Coronavirus ha causato 125 mila morti e 4 milioni di disoccupati. Perché, come diceva Nixon, in fondo per un cittadino la vittoria delle elezioni sta nella risposta a una semplice domanda: «Stai meglio di come stavi 4 anni fa?».

La ribellione delle forze armate

«Trump fa appello alla sua fedele base cercando di dipingersi come un duro e in controllo della situazione – racconta a Open Charles Kupchan, ex consulente di Obama sulla politica estera -. Ha dovuto però cedere sull’uso dei militari contro i manifestanti, anche perché si è trovato davanti le critiche del mondo militare».

La ribellione di generali e comandanti è stato uno dei momenti topici della stagione nera di Trump: «Una larga percentuale dell’esercito americano è composta da afroamericani. I leader militari – sottolinea il politologo – sono molto sensibili alle opinioni provenienti dalla comunità nera. Sanno quanto Trump sia impopolare tra loro e tra le donne, e quanto offensivo sia l’uso della bandiera confederata e l’utilizzo dei nomi di generali confederati per i neri americani».

Gli interrogativi della fase finale della campagna

Il sondaggista Sabato conferma: «Molti leader americani, così come tanti membri repubblicani del congresso, sono molto più avanti di Trump”. Sono passati 155 anni da quando il Sud ha perso la guerra civile. Nessun altro Paese onora i traditori come facciamo noi negli Stati Uniti. I confederati erano traditori: hanno impugnato le armi contro il loro stesso paese». La risposta del presidente è stata, anche su questo, molto chiara: il nemico non è il leader confederato, quando piuttosto chi cerca di rimuoverlo.

«Adesso che stiamo entrando nella parte finale della campagna elettorale – continua Kupchan, che insegna alla Georgetown University – Trump diffonderà regolarmente la sua immagine di “duro” e alimenterà la sottocorrente del nazionalismo bianco che fa parte del suo marchio politico». Nel 2016 ha funzionato, ma allora l’occupazione galoppava, la sinistra discuteva di bagni transgender, e il concorrente era una donna molto invisa all’elettorato americano: Hillary Clinton. Sbagliato pensare che possa funzionare ancora.

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