Coronavirus, la Milano del lockdown vista con gli occhi dei rider – Video

Il documentario “Riders Not Heroes” racconta le problematiche di un lavoro che durante la quarantena è emerso dal cono d’ombra

Milano è la capitale del food delivery in Italia. Ma è anche la città che più di tutte, durante la fase acuta dell’emergenza Coronavirus, ha mostrato il senso di vuoto creato dalla pandemia: le strade, prima intasate, sono diventate deserte. I dehors dei locali, un tempo sempre pieni, farsi improvvisamente simbolo della desolazione. In questo deserto inedito, sono poche le persone che hanno continuato a muoversi come prima.


Anzi, più di prima: i rider sono stati fin da subito considerati lavoratori essenziali. Per il cibo – ma anche per farmaci e altri beni -, sono loro che hanno mantenuto vivo il contatto tra cittadini, chiusi in casa, e la ristorazione milanese. Il documentario Riders Not Heroes, ideato e prodotto dalle due agenzie milanesi 2050+ e -orama, prova a raccontare, senza semplificazioni, le problematiche di questo lavoro che durante la quarantena nazionale è emerso dal cono d’ombra.


Ippolito Pestellini Laparelli è il fondatore di 2050+, «agenzia che si muove a cavallo tra design, tecnologica, pratiche ambientali e politica». A Open spiega come mai, insieme, al pool di film maker di -orama, ha scelto di «occuparsi del capitalismo delle piattaforme e della gig economy attraverso lo sguardo di un rider».

È stato il lockdown a ispirarvi e farvi raccontare il fenomeno dei rider?

«No, l’idea era nata già da tempo: volevamo indagare il fenomeno dei rider perché sono un nodo interessante di diverse problematiche. Nel loro lavoro, c’è l’intersezione tra precariato digitale, impatto delle piattaforme sulla nostra economia e crisi dei rifugiati. Tematiche che favoriscono una sorta di caporalato digitale».

Il coronavirus ha accesso un riflettore sulle vite dei rider, uniche presenze che popolavano le città deserte.

«Sì, a queste intersezioni di problematiche si è sovrapposto il covid. Mentre noi tutti, in casa, abbiamo iniziato a osservare il mondo attraverso uno schermo, loro erano guidati da uno schermo. Erano considerati lavoratori essenziali, indispensabili per soddisfare il nostro bisogno di beni da ricevere a casa. E in questa profonda differenza di condizione tra noi e loro, lo schermo era l’unico elemento a connettere le diverse realtà durante la pandemia».

Come avete girato le riprese durante la fase acuta della pandemia?

«Lupo Borognovo è stato il nostro rider d’eccezione: si è prestato ad andare in giro con le GoPro in una Milano deserta. Gli unici assembramenti erano costituiti proprio dai rider in fila al ristorante. A livello concettuale, abbiamo trasformato il rider in una lente per osservare la vita durante il lockdown».

Qual è il messaggio del vostro documentario?

«Lo scopo è quello di costruire una narrativa complessa dei fenomeni che, per loro natura, sono complessi. Spesso i molteplici layer vengono decifrati attraverso la semplificazione. Noi, invece, puntiamo a dare loro il giusto peso, che si traduce in una sovrapposizione di frammenti di realtà, senza escludere nessun aspetto. Quella dei rider è una categoria invisibile, diventata apparente soltanto durante il lockdown. E visto che è molto rappresentativa delle problematiche del giglabour, uno dei nostri obiettivi è non farla tornare nell’ombra».

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