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«L’ultimo colpo per un Paese già al collasso». Ecco perché il Libano rischia di sparire – L’intervista

Secondo Annalisa Perteghella (Ispi), l'esplosione al porto di Beirut è la rappresentazione del fallimento di un'intera classe dirigente

Lo aveva spiegato bene il giorno prima dell’esplosione – e sulle pagine del New York Times – la scrittrice libanese Lina Mounzer, scardinando un mito – «stancante» – sulla resilienza del suo popolo. «Non c’è nulla di resiliente nel Libano, eccetto i suoi politici e signori della guerra». Un riferimento alla cleptocrazia che da anni governa il Paese dei cedri. L’esplosione del 4 agosto al porto di Beirut ha messo in evidenza – ancora una volta – quello che sembra sempre di più un disastro annunciato, scandito dall’incuria di una classe dirigente incollata ai suoi privilegi. Già in ginocchio a causa di una crisi economica mai affrontata prima, il Libano deve ora fare i conti anche con la distruzione del primo e più importante hub commerciale del Paese.

La crisi economica

Una popolazione di 5 milioni di abitanti, il Libano ha vissuto una svalutazione della moneta nazionale e un’inflazione del 56%. A marzo, il primo ministro Hassan Diab aveva dichiarato il default: nel giro di una notte, i cittadini hanno perso i risparmi di una vita e i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati del 50%. Con una economia che si regge su servizi finanziari e turismo, il Libano importa dall’estero l’80% dei suoi prodotti – tra cui petrolio, grano e altre materie prime. Il 60% dell’import passa dal porto e ora, come ha detto il ministro dell’Economia libanese Raoul Nehme a Reuters, restano «a disposizione riserve di grano per meno di un mese».

Un ordine politico fragile e corrotto

«Le immagini sono emblematiche, il porto non sarà in grado di ripartire», commenta a Open Annalisa Perteghella, Research Fellow dell’Istituto per gli Studi di Politica internazionale (Ispi). Un disastro che arriva mentre la maggioranza della popolazione fatica a comprare pane e mentre i suicidi sono in crescita a causa della profonda recessione. A ottobre 2019 il malcontento si era manifestato nelle proteste, organizzate contro decenni di corruzione e di un ordine politico basato su un delicato equilibrio settario, portando alle dimissioni dell’ex premier Saad Hariri.

Twitter | Il porto di Beirut dopo le esplosioni

Dopo una guerra civile durata più di 15 anni e i continui scontri tra Hezbollah e Israele, dal 2011 il Libano ha dovuto fare i conti anche con la crisi di rifugiati arrivati dalla Siria, che ora costituiscono il 30% dell’intera popolazione. Con l’arrivo dell’ epidemia da Coronavirus, tre ospedali della città distrutti e strutture sanitarie al collasso. Il Libano rischia di sparire.

Dottoressa Perteghella, che significa la distruzione del porto di Beirut per il Libano?

«Il porto di Beirut era la via di accesso principale per i rifornimenti di cui il Paese ha bisogno. Il Libano, anche prima della pandemia e della crisi economica, importava circa l’80% del proprio fabbisogno alimentare dall’estero. Stessa cosa per quanto riguarda i rifornimenti di carburante e di altri beni. Quella del Paese è un’economia totalmente basata sui servizi finanziari e attività di turismo. Ora è una tragedia: il porto è distrutto e inutilizzabile. Al momento si pone anche il problema di come fare arrivare gli aiuti umanitari. C’è una difficoltà logistica: il confine a sud con Israele è bloccato, mentre a nord e a est c’è la Siria, distrutta dalla guerra. L’unica via d’accesso era il porto o gli aeroporti».

La distruzione della città arriva in un contesto economico estremamente difficile. Si parla di una crisi senza precedenti

«E lo è. Lo scorso marzo il primo ministro del Libano Hassan Diab ha ammesso il fallimento del Paese, annunciando il default e ammettendo di fatto di non essere in grado di pagare gli interessi sul debito. Da marzo in poi, le cose non sono migliorate. Anzi. C’è stata la pandemia che tuttora sta colpendo il Paese. È in corso un negoziato con il Fondo monetario internazionale, ma accettare quegli aiuti comporterebbe imporre delle politiche di austerity che la classe politica non è in grado e non vuole fare.

Se il governo annunciasse ulteriori strette sulla popolazione, sarebbe la fine. I cittadini di tutte le appartenenze politiche e religiose sono già in rivolta da ottobre 2019 per chiedere delle riforme. Il governo ha le mani legate ora, da un nodo che hanno fatto i politici stessi: sono una classe immobile e corrotta. Il rapporto tra il debito e il Pil è del del 170% – una cifra enorme per un paese così piccolo come il Libano.

Ma anche dopo le proteste nulla è cambiato. Questi mesi hanno visto una drammatica diminuzione del potere d’acquisto aggiunta a un’importante svalutazione della moneta. La classe media, che teneva in piedi l’economia, ora è davanti a un impoverimento senza precedenti. Obiettivamente non c’è nulla da cui ripartire. Bisognerebbe tirare una linea e rifare tutto daccapo».

A proposito delle proteste dello scorso autunno: qual è il futuro delle rivolte?

«Ora il convoglio di Hariri è stato preso d’assalto dalla folla. C’è la rabbia, c’è l’esasperazione. La pandemia ha solo messo in stand by le proteste: non è sbagliato pensare che ci attenderanno forti proteste nei prossimi mesi. Quello che è accaduto ieri è l’immagine plastica del fallimento di una classe politica – soprattutto se verrà accertata l’ipotesi che a causare l’esplosione è stato il deposito di nitrato d’ammonio rimasto lì per anni senza controlli».

Anche la situazione umanitaria non è delle più felici.

«Da anni c’è una presenza molto importante di rifugiati. Palestinesi soprattutto, che ormai non si contano più, ma anche siriani, che hanno iniziato a entrare nel Paese attorno al 2014. Il Libano è un Paese dalla precarietà esistenziale, che vive una situazione di estrema fragilità. Ora andremo verso numeri molto più alti di sfollati – si parla già di centinaia di migliaia di persone rimaste senza casa. Gli ospedali sono allo stremo per il Covid-19 e due strutture sono state colpite dalle esplosioni di ieri. Per quanto riguarda l’importazione di cibo, che sarà l’emergenza delle prossime ore, il Libano rischiava già da prima dell’esplosione di rimanere senza rifornimenti».

Hezbollah ha negato il coinvolgimento di Israele, e Israele si è affrettato a ricambiare il favore. Qual è il contesto politico che accompagna questo disastro? Bisogna essere più preoccupati dall’aspetto interno, o quello che deve preoccuparci è la situazione politica interna?

«Il Libano scoppia dall’interno. Sicuramente è stato molto interessante osservare le dichiarazioni di Israele e Hezbollah, ma anche se fosse stato davvero un attacco israeliano, credo che in questo momento ci sia poca voglia di accendere l’ennesima miccia. Israele ha offerto aiuti umanitari al Libano e ci tiene a far capire di essere estraneo alla faccenda. Perché nemmeno Israele è interessato al confronto aperto, nonostante i recenti scontri al confine possano far credere il contrario.

Bisogna preoccuparci di più dell’aspetto interno: le proteste, le riforme che non arrivano. E anche Hezbollah, come i partigiani di Hariri e tutti gli altri, è ormai visto come qualcuno che ha operato facendo gli interessi degli altri. Hezbollah per l’Iran, Hariri per l’Arabia Saudita. Ora la popolazione non vuole più ingerenze esterne. E questa stanchezza è arrivata a un punto di non ritorno».

Venerdì 7 agosto ci sarà il processo per l’omicidio di Rafiq Hariri. Se i membri di Hezbollah dovessero essere giudicati colpevoli, potrebbe questa essere un’ulteriore miccia per i disordini?

«A fronte dell’esplosione, le persone potrebbero non avere da subito le energie per protestare. Scendere in piazza per esprimere la propria rabbia su un verdetto di anni fa potrebbe essere uno sforzo che i libanesi non saranno disposti a fare. Quel che ne sarà delle proteste e del Libano verrà stabilito nelle prossime settimane, non nei prossimi giorni. Dipenderà da come verranno gestiti i fondi e dalla capacità della classe politica di farsi da parte. Magari lasciando spazio a un governo di tecnici che dovranno rimboccarsi le maniche per ricostruire da zero il Paese».

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