Brexit, riprendono i negoziati tra ultimatum, indiscrezioni e smentite. Dove eravamo rimasti

Oggi parte l’ottavo round dei negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Ma dopo tre anni e mezzo non è affatto scontato che le due parti raggiungano un accordo

Anche se il Regno Unito ha ufficialmente lasciato l’Unione europea il 31 gennaio scorso, continuano i negoziati per la Brexit. La scadenza per l’uscita definitiva è l’ultimo giorno dell’anno, ma ieri il premier Boris Johnson è tornato a insistere che se non verrà raggiunto un accordo entro il 15 ottobre – data di un nuovo Consiglio europeo – allora sarà impossibile trovarlo per tempo, prima della fine del periodo di transizione. Si tratta di un modo per dire che, dopo una maratona durata circa tre anni e mezzo, potremmo davvero avere un no deal Brexit – a meno che Johnson non stia bluffando, come alcuni sostengono. Con i negoziati che entrano nell’ottavo round, sono ancora molti i punti da chiarire, dalla complicatissima questione del confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda all’accordo sui diritti di pesca nelle acque territoriali britanniche.


Il governo britannico vuole modificare l’accordo sull’Irlanda?

A complicare la questione ulteriormente è stata un’indiscrezione del Financial Times secondo cui il governo di Johnson starebbe lavorando a una serie di leggi che annullerebbero delle parti chiave dell’accordo raggiunto con Bruxelles, «rischiando di far fallire i negoziati commerciali». Nello specifico, il governo vorrebbe sia rivedere le misure che riguardano le tariffe sulle merci in movimento tra l’Irlanda del Nord e la Gran Bretagna, sia rimuovere l’obbligo di notifica all’Ue di eventuali aiuti statali alle aziende nord-irlandesi, una misura voluta da Bruxelles a tutela della Repubblica D’Irlanda. Lo scoop del quotidiano londinese ha scatenato una valanga di critiche e prese di posizioni indignate. A partire dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen che su Twitter ha scritto di confidare che «il governo britannico attui l’accordo di recesso, un obbligo ai sensi del diritto internazionale e prerequisito per qualsiasi futura partnership», aggiungendo che «il protocollo sull’Irlanda / Irlanda del Nord è essenziale per proteggere la pace e la stabilità sull’isola e l’integrità del mercato unico».


Anche il negoziatore europeo, Michel Barnier – che si è detto «preoccupato» per l’esito dei negoziati -, ha ribadito che «gli accordi firmati vanno rispettati». Come risposta, il governo britannico ha abbozzato una mezza smentita. Il portavoce di Johnson, James Slack, ha dichiarato che i progetti di legge di questa settimana hanno come unico obiettivo quello di chiarire «ambiguità» ed evitare «conseguenze non intenzionali» nel complesso accordo sul confine tra le due Irlande. Il premier non ha ritenuto necessario aggiungere altro.

I rischi del “no-deal” e i timori degli euroscettici

Difficile distinguere l’ideologia dalla tattica, le chiacchiere dai fatti. L’avvicinarsi dell’ultima, decisiva fase nei negoziati è stata accompagnata da un’escalation nelle dichiarazioni di entrambe le parti. In un’intervista domenica il capo negoziatore britannico, David Frost, ha parlato alla pancia del Paese dicendo che il Regno Unito «non sarebbe diventato uno stato vassallo dell’Ue», mentre Johnson è arrivato a dire che il no deal sarebbe «un buon esito per il Regno Unito», nonostante gli eventuali danni per l’economia, già in difficoltà per il Coronavirus. Uscire definitivamente dall’Unione europea senza accordo potrebbe davvero essere disastroso: il Regno Unito si troverebbe all’improvviso a pagare dazi sulle proprie merci (i cui prezzi aumenterebbero notevolmente) in uno dei mercati di riferimento per i produttori britannici. Per non parlare poi del rischio – sempre più concreto – che un nuovo referendum scozzese possa sancire la fine del Regno Unito.

Ma per evitare il no-deal le due parti non devono trovare un accordo soltanto sull’Irlanda e sulle regole attorno agli aiuti statali. C’è ancora molto da chiarire per quanto riguarda le regolamentazioni da adottare come condizione per un accordo commerciale – in materia ambientale, per esempio. Un altro argomento di discussione riguarda la cosiddetta “governance” di eventuali futuri accordi, sia per quanto riguarda la loro struttura generale, sia il modo in cui verranno applicati e il ruolo che giocherà la Corte di giustizia europea. Infine c’è il mondo della pesca, argomento ad elevato contenuto ideologico. Bruxelles spinge per mantenere le attuali quote e i diritti di accesso da parte dei pescatori europei alle acque attorno alla Gran Bretagna, mentre il Regno Unito – che ne fa una questione di principio -, vuole poter determinare autonomamente chi può pescare nelle proprie acque territoriali e in quale misura può farlo.

Johnson insiste che i due blocchi possono trovare un accordo – magari per un accordo di libero scambio come quello con il Canada, ipotizza – a patto che l’Ue scenda a compromessi, senza che il Regno Unito però debba «compromettere alcuni dei principi fondamentali che ne fanno un Paese libero». Al tempo stesso, l’Ue non può mostrarsi debole con il Paese che le ha voltato le spalle, visto anche il suo minor peso economico. Nell’incertezza generale c’è chi, anche tra i conservatori, sostiene che Johnson stia semplicemente bluffando per ottenere ulteriori concessioni dall’Unione europea oppure con l’obiettivo di trovare un accordo all’ultimo, da rivendere al popolo britannico come un grande successo, naturalmente. E poi c’è chi sostiene che il premier sia davvero intenzionato a uscire con il botto, addossando la colpa per un eventuale no deal alla superba e irragionevole Ue. Ma sono in minoranza – come era prevedibile, anche in questo caso manca un accordo.

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